Quando dipingeva doveva continuamente guardare il modello. Non aveva memoria visiva. Forse la miopia.

Una moltitudine di impercettibili variazioni tonali. Solo questo.

Non era altro che questo tutto l’intorno. Anche la vita. Le vite, le esistenze di tutti. Moltitudine di impercettibili variazioni tonali. Che potevano essere osservate, analizzate, scomposte e rimiscelate sulla tavolozza. Poi trasferite sulla tela. O in testa. Almeno all’apparenza, semplice.

 

Faticosa solo la continua alternanza di messa a fuoco. Il mio punto di vista e il reale. La mia percezione del reale. E il sottile confine da infrangere.

Da valicare.

Per potersene impossessare, per capire. Assimilare.

 

Lei sempre così lieve. Così desiderosa di vivere sfiorando. Scuola dura questa della pittura. Modello, tela. Modello, tela. Attenzione. Memoria.

S’era seduta. Accesa una sigaretta, lo sguardo un poco fuori della finestra a cercare riposo, in ascolto del vento. Forte. E pioggia imminente, forse.

Sulle piastrelle di cotto del balcone le briciole per i passeri erano volate via. Poi le avrebbe rimesse. Ora no, troppo vento.

Però le piaceva il vento. Questa capacità di rimischiare, di rivoltare e smuovere. Creare nuovi equilibri. Nuovi accostamenti, magari impensabili. E il suono. Una voce che non domanda.

Sigaretta nella sinistra, ora guardava la tela. Doveva scurire una ciocca di capelli. E gli occhi. Doveva lavorarci. No adesso, fuma. Stacca, s’era detto.

 

La foto, accanto alla tela, le dava un senso di tranquillità. Posso farlo quando voglio. Adesso fumo.  Sta fermo lì. Modello docile. Mi da tutto il tempo.

Poterci rimettere le mani in qualsiasi momento. Non dover essere costretta ad agire. A correre. Tecnica gentile, l’olio.  Poteva prendersi pause. Concedersi ripensamenti.

Questo le dava, dipingere. Un senso di controllo del tempo. Era padrona del tempo. Probabilmente perché lavorava dalle foto. Più comodo. Meglio se foto di sconosciuti. Si divertiva a svelare interiorità. Di solito ci riusciva. Almeno quello dicevano gli altri.

Aveva ricevuto una piccola ode da una cliente una volta, una pergamena arrotolata, col fiocchetto rosso.  “Lei mi ha dipinto l’anima”. E una poesia. Bello. Tenero. Scambio di creatività.

 

Guardava la foto, adesso. S’era voltata un attimo, verso il piccolo stereo e aveva riavviato il tasto del play. Poi aveva selezionato Ripeti. Brahms.

Un attimo a occhi chiusi. Poi il ritratto. Bell’uomo. Chissà come mai aveva voluto il ritratto. Strano. Donne, bambini. Nonni o antenati vari. Uomini raramente.

I bambini le piacevano. Venivano sempre bei ritratti. Di solito erano le nonne a chiederli. Le nonne senza più guizzi, senza attese, che s’erano risvegliate coi nipoti alla vita che scivolava via. S’erano innamorate di nuovo.

 

Fuori ancora vento, impetuoso. Potente. La seggiolina di plastica bianca in balcone s’era un po’ spostata. Per fortuna aveva tolto il vaso con le impathiens, dal tavolo. Meglio, con quel vento.

Aveva come una sensazione di presenza. Il vento. Strano.

Come un allarme. Adesso gli occhi. Lavorare sugli occhi. Grandi e fondi. Doveva riuscire a dare quella profondità. Mentre dipingeva si sentiva osservata. Dal quadro. Lo sentiva vivo. Davvero una strana sensazione.

Mai provata prima.

Come se fosse uno specchio, ma con u’altra immagine. Non lei. Qualcuno che la guardava, la scrutava.

La mano a massaggiarsi la nuca dolente. Cervicale esasperata dalla posizione.

Di nuovo al lavoro. Quegli occhi. Ancora un piccolo tocco di terra d’ombra. Forse ci voleva un po’ di Prussia. Per affondare. Sì.

Bello. Vivo.

Aveva abbassato lo sguardo. Si sentiva davvero a disagio.

Uno strano, stranissimo ritratto.

S’era seduta di nuovo, con una sensazione di malessere, di dolore. Poi, capito. Le dispiaceva doverlo dare via. Si affezionava sempre ai suoi quadri, ma questo era strano. Questo quadro. E lui continuava a guardarla come se fosse lì, vivo. Presente. Che vuoi? Gli aveva detto. Poi aveva sorriso. Andiamo bene, ci parlo pure.

S’era allontanata, occhi socchiusi e, sì. Finito. Ci siamo. È lui.

Era più lui della foto, veramente. Era come materializzato. Le sembrava che muovesse anche impercettibilmente gli occhi.

Altra sigaretta. Sono matta, aveva pensato. Mi sono stancata troppo. Aveva guardato l’orologio. Sette ore che stava lì, a dipingere. Senza neanche mangiare. Doveva essere questo. Cavolo!

 

Ancora vento fuori. Sembrava una voce. Un richiamo. Quasi disperato. Ma che scemenza, pensava.

S’era messa a pulire i pennelli e ogni tanto guardava la tela. La tela guardava lei. Si stavano conoscendo. Davvero sentiva di aver dipinto quell’uomo dal vero. Come se fosse lì.

Il trillo del telefono l’aveva fatta trasalire.

–         Sì? Pronto?

–         Sono Vinelli. Sì. Tutto bene?

–         Ho quasi finito, signor Vinelli. Può avvisare il tipo che il ritratto è pronto.

–         Sarà difficile.

–         Difficile?

S’era preoccupata. Perché difficile. Questo era il miglior ritratto che avesse fatto. Perché non poteva avvisare il committente che era finito?

–         Allora? Perché difficile? Non può avvisare?

–         Certo, ma non il signore del ritratto. Sua madre.

–         Un regalo?

Carino, aveva pensato. Una mamma che fa fare il ritratto al figlio e glielo regala. Carino.

–         il regalo è per la madre. Lui è morto l’anno scorso. Per questo ha voluto il ritratto. E sperava di averlo per l’anniversario della morte. Era un ragazzo straordinario. L’amavano tutti.

–         È finito. L’avrà. Anche domani se vuole.

 

Fuori il vento adesso soffiava lento. Costante. Sembrava un canto. Un canto di ringraziamento.

(by poetella)

 

nella foto “Autoritratto”

di Ciro Resta de Spinoza. primo ‘800.

 

Johannes Brahms-Trio for Piano, Clarinet and Cello – Op114(1891)II – Adagio