(foto dal web)

E poi quella volta.

Cavalletti pasticciati di vecchio colore, colore di anni, di generazioni, colore a strati, croste di colore, fantasmi di colore, vestigia di colore,  cavalletti  sparsi per l’aula.

A gruppi e isolati.

Un vociare sommesso, tranquillo, dietro i grossi stiratori*.

E la luce, la luce dalle finestre enormi, la luce che spadroneggia sui gessi, sui fogli bianchi, sulle teste inclinate un po’ a destra, un po’ a sinistra. Doveva essere quasi primavera. Del ’66.

La luce sui trespoli  con le teste sopra. La luce sui rilievi alle pareti e sulle scarpe lucidissime del professor Pettinelli. Accanto a lei.

Lei che guarda il suo foglio. Aveva comprato anche le puntine da disegno a tre punte. Ché se no si muoveva tutto.

Poi guarda lui. Altissimo. Capelli bianchi. Elegante. Sempre. E  guarda il foglio e la matita.

Pettinelli gliela leva di mano. Legge numero e lettere. Gliela ridà. La guarda. Guarda il disegno. Guarda l’orecchio di gesso in posa, sereno, a farsi fare il ritratto, appeso al muro.

Lei ferma, matita di nuovo in mano, guarda ancora un po’ l’orecchio, poi il suo disegno. Già mille cancellature. Poi guarda il professore. Piccoli movimenti degli occhi. Gli guarda le scarpe.

 

Il tempo inceppato.

Ci tieni alla tua dignità? Romba lui. Tutti si girano. Guardano. Romba quella voce in un modo che lei non conosceva ancora e Sì, risponde, Sì, ci tengo.

Allora cancella, sentenzia lui. E va via.

Ecco.

 

Quanto della sua vita avrebbe dovuto cancellare e riscrivere, ancora, per poi guardarsi, inclinarsi un po’ a destra, poi a sinistra e guardarsi, prima di Ok. sei dignitosa! dire.

E andare avanti.

(by poetella)

 

 

* spessa tavola di legno, o meglio di truciolato o compensato, sulla quale si attaccava il foglio da disegno 50×70