(Antonio Lobo Antunes)
Sì…voglio proprio provarci.
Non l’ho mai fatto.
Una recensione, dico. La recensione di un libro.
Non è il mio mestiere. E magari farò un pasticcio. Una cosa artigianale.
Ma voglio provarci comunque, ché questo Lobo Antunes mi piace troppo.
E troppo pochi ne parlano.
Anzi, quasi nessuno.
(ed io odio le insegnanti di Lettere, che, in sala dei professori, al “che leggi?” e visto l’autore dicono “No! Non lo conosco!”)
Dunque, l’ultimo suo. No, meglio, non l’ultimo suo. L’ultimo pubblicato in Italia. Che lui, lui ne ha scritti già altri tre. Ma chissà quando avremo la gioia di leggerli, tradotti in italiano.
Comunque, l’ultimo, uscito ad aprile è, per quanto mi riguarda, il più bello.
(…e ne ho letti già sette. O otto?)
Il più ricco. Il più intenso di tutti.
Con il suo inconfondibile stile, un narrare “polifonico” come lo definisce lui stesso, ci proietta in un mondo dove presente, passato, sogno, immaginazione, realtà e metafora si fondono e si intrecciano continuamente in una danza di parole ad altissima valenza lirica.
Un mosaico di tessere d’oro.
Non c’è una vera storia, una narrazione continua. Tutto si svela a vampate di luce, in una fantomatica tenuta che non esiste più, ricorrendo a voci che si intrecciano ripescando ricordi frammisti a desideri mai soddisfatti, a debolezze, a paure, a delusioni e disillusioni, evaporati dalle anime che tristemente popolano il romanzo. Alcune molto ben definite, pur se senza nome.
Grande importanza si da al nome dei personaggi. Non ne hanno, se non pochi.
Una Maria Adelaide che inizialmente si crede morta e invece poi…
Una vecchissima zia Hortelinda, (metaforica?) personificazione della morte o personaggio reale.
O tutte e due. Un non meglio individuato Jaime, che lascia di sé solo il nome sulle labbra della nonna, e nient’altro.
Tutti gli altri non lo hanno. Non hanno identità, forse. Chi sono io? ripete uno dei personaggi, spesso.
Niente nomi. Sono solo il nonno, il padre, che poi, padre…chi sa…un amministratore, un aiutante dell’amministratore. Una nonna. Una madre. Due fratelli, nipoti del nonno, (nipoti?) con forse neanche la stessa madre e sicuramente non lo stesso padre. Uno dei quali autistico, che conserva memoria dei fatti avvenuti anche prima di lui e tesse le file del racconto. (e con quale maestria Antunes ci descrive il mondo di queste persone chiuse in un nulla pieno di un tutto che gli altri ignorano! Come loro pare, [pare?] ignorino gli altri)
Un testo che, per quanto mi riguarda, s’è meglio delineato alla seconda lettura e lo sarà di più alla terza.
Leggere Antunes è come leggere poesia. Ad ogni rilettura la meraviglia si ripete. Si scende più in fondo, le parole ci si scrivono dentro.
Il tutto è narrato, poi, con lo stile inconfondibile di Antunes. Frasi cortissime, molte parentesi, coppie di parole che tornano come ritornelli, o come versi, a sottolineare la ripetitività delle situazioni dolorose della vita. Dialoghi minimi. Essenziali. Silenzi. Fatti di gesti che parlano.
Un caratterizzare i personaggi con tratti netti, decisi, quadri espressionisti.
Tutto pervaso di una grande pietà per l’umanità sofferente in attesa dolorosa della morte.
Senza speranza. Che, in fondo, cosa c’è da sperare…
Io lo so cosa c’è da sperare.
Che presto arrivi un’altra superba traduzione di un suo prossimo, attesissimo romanzo, ché io non riesco a leggere altro.
Ecco.
…
…
…
(Parola di poetella)
P.s.
Dimenticavo…ma chi mi segue lo sa già! il titolo:
Arcipelago dell’insonnia– di Antonio Lobo Antunes
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