l’affanno senza corse. L’abisso spalancato oltre le serrande abbassate sul mondo. Fuori Non dimenticare gli sguardi che rapivi dietro i miei occhi socchiusi. Socchiudere, o chiudere tutto l’altrove. Sapevamo farlo. Sappiamo farlo. Fare che l’oro smettesse di brillare oscurato dal lucore della pelle. Dal chiarore dei desideri. Quando s’infocavano di nebbia.
Non dimenticare la musica muta che facevano i miei capelli sul tuo cuscino e le note che si confondevano tra le pieghe delle lenzuola. Volate via come vele senza destino.
Amore mio, non dimenticare.
C’è sempre una canzone che dobbiamo cantare. Ancora un verso da scrivere. Una luce da accendere negli occhi. Ammaliati, accecati d’amore.
C’è un piccolo regno in fondo al mio petto.
Lì sono sempre regina. E tu re. … … …
(by poetella)
Vecchio post “rivisto e corretto” Il video invece e quello originale…
E tu mi traduci in una lingua nuova quello che era il mio dolore tu lo distendi piano piano sul banco di scolaretta attenta indichi e guidi ti guardo e imparo l’uguale e il disuguale che tirano su il mondo.
Tu che decifri e dai senso tu che m’insegni come c’insegnano i colori e i canti e le luci tremolanti sulla corteccia del pino lei che sale sale su verso l’azzurro e mormora: vedi?
che so, il filtro del rubinetto di cucina liberato dalle catene del calcare e il getto fragoroso dell’acqua. Canterina e libera. Il mio libero e canterino ascoltare l’Aria da capo delle Goldberg, nota per nota, pausa per pausa. Senza freni.
Nelle piccole cose
che so, l’armadietto del contatore del gas, in balcone, tutto pulito, buttate via cianfrusaglie, sacchetti di concime granulare vecchio di decenni e dimenticato, vasi di plastica di antichi trapianti di piante ormai morte, sostituite, mai rimpiante. I miei pensieri lavati, tutti puliti col ricordo di un ieri vicinissimo e stampato a marchio come un’omologazione per felicità.
Nelle piccole cose
che so, nei lenti preparativi rituali di una tisana depurativa al tarassaco e curcuma, nei lenti preparativi rituali dell’attesa di qualcosa che, tanto, prima o poi…
Perché vedi caro certe volte mi sembra cha a dirlo ai fiori in balcone o magari a quei due piccioni che ci si sono accasati, o al geco che a volte, la sera, striscia veloce, dalla lucetta del piccolo lampione appeso sopra la piantina di begonia, alla prima zona d’ombra che trova, accogliente e silenziosa, dirlo a loro, certe volte non mi basta. Dirgli delle nuvole, per esempio, di quante forme sempre nuove, mutevoli, visto mai una nuvola uguale all’altra? di quella loro leggerezza, di quella libertà di andare e tornare e dissolversi e riformarsi più in là, di quella loro indipendenza senza leggi e comandi e dell’indescrivibile azzurro che le tiene appese come gli angeli d’un presepe napoletano e del vento che le spinge soffiando come un bimbo che fa bolle di sapone, dirlo alla strada, oppure, che guardo come un fiume grigio con le foglie che ci viaggiano verso il mare, ma dove sarà mai il mare? Dove l’azzurro? Dove la meta, la spiaggia, l’isola felice?
Insomma, stare a dare tutte queste briciole di pensiero all’aria, alla cortina del palazzo di fronte, al grande vaso con l’ibisco e a quello piccolo con la lantana, davvero non mi basta.
Vorrei dirlo a te. Ecco.
Allora chiudo la tenda. E la bocca. E gli occhi. E sogno. … … …
mentre stirava l’ottava camicia – troppe camice in questa casa, l’indiano della tintoria non stira bene, povero, tutte da ristirare – lei pensava, col Canone per tre violini e violoncello di Pachebel nelle orecchie, questa casa finta, questa casa scomoda, piena di gueridon pieni di ninnoli, figurette, tazze e caffettiere del settecento, dell’ottocento, piena di mensole e mensolette piene di chicchere e piatti di porcellana, di bronzo, di maiolica istoriata del seicento, del settecento, dell’ottocento, albarelli, angeli e angioletti, puttini e dee e dei ed eroi, e mostri, vasi e coppe, e avori, tutto antico, cartagloria, fiori di seta, tutto morto, tutto da altri usato per viverci comodi, non per metterlo lì a dover essere spolverato, lucidato, schivato per non romperlo, in quella casa finta con gli armadi piccoli, che se no disturbano l’equilibrio infinito, prezioso della mostra degli oggetti rari, quadri e quadretti e miniature e specchi e specchi finti, antichi, macchiati, scrostati, che non ci si vede niente e ci si deve specchiare in quello dell’ascensore, di fronte, di profilo, ok, va bene,
stirava e pensava, in quella casa senza lo spazio per una libreria, i libri un po’ qui, un po’ lì, un po’ in soffitta, o sotto al letto, o in cucina o in quella verticalina su due, tre strati, senza un faretto per illuminare, Me lo metti un faretto? Ma che sei matta? Ci starebbe malissimo! Con la torcetta per vedere che cavolo di libro era. Se era quello che cercava, senza trovarlo. E svuotare tutto, a tentoni. Poi rinunciare. E per fortuna una libreriola in cucina coi preferiti. Amori miei!
E lei stirava e pensava Tu!
Tu che non scrivi. Tu che, non serve che scrivi, tu che vivi in semplicità. Tu, solo l’essenziale. Tu col poco. Tu che non telefoni, ché non serve telefonare. E non mandi messaggi. Ma che messaggi devi mandare mai?
Ché lo sai che mi sei continuamente in testa, ché se non ti avessi continuamente in testa soffocherei, in questa prigione di falsità, che ci soffocherebbe chiunque.
se anche fossi stata con te fino a poco fa, ma sì, in uno dei nostri viaggi agli Iperborei, in una di quelle trasvolate transoceaniche che ti ritrovi dall’altra parte del mondo e non sai come ci sei arrivato, se fossi stata immersa proprio fino a poco fa nella luce accecante di una sperduta galassia lontana anni luce da questa fragile, minuscola, vanitosa terra, questo granellino fluttuante nell’infinito dove volo inafferrabile con te, quando volo, con un movimento a spirale attraverso spazi inimmaginabili da mente umana
insomma, se io fossi stata fino a pochi minuti fa in quel turbine di colori dietro gli occhi chiusi, in quel turbine di profumi e suoni nel silenzio della tua stanza sigillata al mondo, se anche proprio da pochissimi istanti ne fossi uscita per tornare a camminare come una comune mortale sul rigido suolo terrestre
Stiamoci a dire che ci basta ci basta e avanza quest’arietta dalla finestra spalancata quando mai a Luglio alle cinque del pomeriggio? Ci basta questo scompiglio sul collo questi capelli leggeri e la lantana che gode del vento e forse anche della musica che le mando fuori Bach è Bach! anche i fiori, forse, no?
Stiamoci a dire che non cerchiamo altro che questo scomposto disordine senza pretese rilassato sul tavolo un bicchiere – il telecomando inerte il posacenere con una sola cicca di sigaretta e sempre i fiori, E il telefono muto.
E la musica.
Stiamoci a dire che siamo soddisfatti del poco del piccolo del quieto. Prendiamoci in giro
all’ingresso, in controluce…davanti al piano il piccolo cinese antico..un turco antico e un piccolo Bokara in corridoio…in camera, un Lillian antico e un Kirman…mentre dalla parte mia, dietro al letto, il mio preferito.Un Kirman laver o un Lillian?questo sicuramente un Saruk antico…lo Shirvan, da mio figlio…questo, probabilmente il più bello. Antico Malayer, metà ‘800…
eadesso aspettiamo si sporchino di nuovo…
e poi li rimanderemo a lavaggio… ancora e ancora, per conservare la bellezza.