Pare che finalmente, – dice Sarai contenta, no? insomma pare che finalmente, e non si sa per quanto, fino a quando, se per molto, per poco, per così così,
ok, dicevo pare che finalmente, dopo qualche minuscolo tentativo mal riuscito, si sa che ci sono forze che remano contro, remano male, i rematori sono sicuramente disavvezzi a grandi manovre, non ci sono più i rematori di una volta (ma che c’è più di una volta? Anche i capelli non sono più quelli di una volta. Pure quelli di mia sorella che erano una favola! Che si doveva fare due treccioline con quelli dietro la nuca per poi legarle attorno alla testa e avere una chioma quasi normale. )
Uffa, lo sapevo, sono andata fuori tema.
Ma oggi si può andare solo fuori tema che fuori casa, meglio no.
Ok, basta. Dicevo pare che finalmente (sia ringraziato il cielo o chi per lui. Ma sì, mi sa che è proprio una questione di cielo)
Beh, anche oggi acquisti. Non so bene da che area geografica arrivi, potrebbe essere Alto Lazio, come Toscana, o anche Marche. Quello che è certo è che questo piccolo boccale da convento, alto poco più di 10 cm, dovrebbe avere circa cinquecento anni, poco più, poco meno. Le cifre sul fronte fanno pensare a Santa Caterina, e la ruota potrebbe essere un riferimento al martirio della santa.
Ma non è meraviglioso che questi minuscoli oggetti si siano conservati così a lungo. Loro cosi fragili, delicati, effimeri?
Ma tant’è. Adesso è a casa mia, insieme a tutti gli altri. Viva!
Sì, dicevo, insomma, sarà perché sono della Vergine, con l’ascendente in Bilancia e un sacco di altri pianeti in Bilancia (amore del bello, dell’equilibrio, dell’armonia, dell’ordinato e sereno… ecc ecc…)
Insomma, sarà per quello, che si sa come la Vergine sia desiderosa di ordine, di precisione, come sia maniaca del tutto a posto, ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa, in più c’è quella Bilancia che vuole tutto bellissimo, artistico, direi, sarà quello o che ne so che sarà, tant’è che
avevo comprato una cassettina per eliminare la vecchia e mettere in bell’ordine (ci stava pure prima ma la scatola era troppo vecchia e sofferente) dicevo e mettere in bell’ordine il mio “parco fili, aghi, forbicine e varie”,ma la cassettina comprata non si chiudeva ermeticamente. Insomma il coperchio era solo appoggiato. E non andava bene, no?
Allora mi sono inventata quest’accroccaggio: ho preso un laccio da scarpe e l’ho fatto passare per i buchetti della scatola. Poi, arrivata nel centro, ho lasciato le codine pendenti per farci un bel fiocco.
Sul retro, due fiocchetti a mo’ di cerniere.
Et voilà! Il gioco è fatto.
Peccato non avessi trovato in casa un laccio rosso, ma solo bianco. Rosso sarebbe stato mooooolto più carino.
Ma lo troverò e sostituirò il bianco.
Intanto… funziona!
…
…
…
(by poetella traffichella)
(tanto per parlare delle piccole cose che danno gioia…)
Fuori è tutto silenzio- no, è che i vetri termici…-
Fuori c’è un mondo bagnato che pulsa, corre, vibra ma qui non arriva niente.
Cosa dovrebbe mai arrivare, in fondo. In fondo al giorno c’è la notte. Ancora è lontana. Non troppo, solo un po’ lontana. Sono le 15,56, ci manca un po’ alla notte. Che poi che me ne dovrei fare della notte. Anche col sonno il rapporto è un po’ burrascoso. E io non amo i rapporti burrascosi. Vorrei tutto liscio, tranquillo, una sciarpa di seta azzurra.
Macchè!
Scordiamocela. E i rapporti, poi, ognuno sta con se stesso e ogni tanto si specchia. In altri occhi. Il colore non conta. Che faccio, conto i giorni che mancano alla fine dell’anno? Tanto poi finirà anche quello.
che a guardarlo, a guardarlo come fai a non farti trasportare da quel suo canto, da quel suo andare schivando, carezzando, sormontando, trascinando, travolgendo
a volte calmo, a volte impetuoso, a volte minaccioso, quasi furente, e poi ancora calmo, dolce, sereno
Il fiume, sempre il fiume
come fai a non starlo ad ascoltare come fosse un amico che ti sussurra grandi verità e poi va via e ti lascia a pensarci su, e poi torna e ti racconta una storia e ancora se ne va e poi torna e ritorna e sta sempre lì, sempre uguale, sempre diverso,
Tuttavia non posso davvero fare a meno di guardare in su.
Certo, il rischio di inciampare (è già successo che ho fatto un bel volo. Punti sul sopracciglio. Che meno male non si vede la cicatrice) quello c’è.
Ma il rischio vale la pena. Cieli vasti, azzurri, a Roma, per lo meno. C’è quell’azzurro che mi sa solo a Roma. Poi non so. Giro poco.
E non solo cieli. Anche nuvole. Nuvole gonfie e bianche, come cumuli di panna o lievi, leggere, veli di chiffon, o a frotte, una scolaresca in cortile. O quelle solitarie, che se ne vanno a cercare la fine chissà dove, chissà come, chissà per chi. O perché. (vabbè, perché si sa. La scienza ci spiega tutto oggigiorno)
Poi, a volte, la luna.
Tuttavia infatti non posso davvero fare a meno di guardare in su.
Gli alberi. Quelli carichi di verde, che grondano verde e non ci vedi niente che verde, sparito il cielo, sparita la terra, spariti i contorni del mondo o quelli tremuli, ansimanti, pensieri non ben definiti, agitati perennemente da sempre nuove domande, come vento. C’è parecchia vita in su. Oltre noi. Dunque…
… m’era venuta voglia di scrivere della luna. È che ieri, Luna piena in Toro, davvero non riuscivo a non guardarla. Nè a fotografarla. C’è chi è più bravo di me a farlo. E infatti l’ha fatto. Ma questo è un altro discorso. Di un’altra storia. Che non è più mia. Nè tanto meno so di chi sia.
Divago. Al solito.
Ma torniamo alla luna. Che poi davvero ieri sembrava una dea. Vagli a spiegare agli uomini primitivi che è solo un pezzo di pietra. Vagli a spiegare a certe donne che certe storie sono solo pezzi di pietra da gettare nel fiume e guardare come affondano.
Ecco. Ho divagato di nuovo.
Comunque la luna, ieri, era proprio una dea. … … … (by poetella)
Sì, mettendo un po’ d’ordine (quasi impossibile) tra le foto conservate nel pc, tante cancellate, via, non se ne parli più, e tante che m’hanno fatto sorridere (tipo mio figlio piccolo, o un sorriso a tavola nella piazza del campo di Siena, anni e anni fa)
Insomma, mettendo ordine come faccio io, una specie di valanga trascina tutto (ero presa davvero da una furia iconoclasta!) ho ritrovato queste due foto.
La Madonna di Citerna, di Donatello
E ho ricordato.
Un’emozione infinita, davanti a quest’opera di Donatello, in un paesino minuscolo, quattro case in fila e un unico ristorante dove tra l’altro abbiamo mangiato malissimo, e non l’avevamo ancora vista! E poi quel vecchietto. Un omino pensionato, d’età indecifrabile, che ci ha accompagnato (diceva di essere una guida turistica volontaria) a vedere la madonna. Ha aperto la chiesa per noi.
Della chiesa non ricordo niente ma la Madonna! Mai visto niente di simile nella scultura in terracotta. Tra l’altro era stata restaurata da pochi anni riportandola al suo colore originario. Lei, bellissima, ma il bambino! Che sguardo orripilato. Come se già vedesse quello che l’aspettava. Il busto ritorto, ritratto, a sfuggire al destino appoggiandosi alla mamma. Una magnificenza che solo un uomo di infinita sensibilità, oltre che ovviamente tecnica sopraffina poteva concepire.
Stupenda!
Bello ricordare la Bellezza! Che davvero è ovunque.
La casa appariva dopo una salitella su una strada bianca tutta ciottoli. Non proprio l’ideale per la piccola panda bianca stanca di troppi anni e troppi cambi di padrone. I tre, un giovane uomo, una donna poco più giovane, o molto, chissà, una seconda donna vistosa, molto truccata, cappotto arancione corto, foulard a coprire le rughe del collo, i tre erano scesi dall’auto lasciata fuori d’una recinzione sbilenca fatta di filo di ferro più simile a quella di un pollaio o di un cantiere stradale abbandonato, molle e pendula, arrugginita, mista a erbacce. Cancelletto chiuso, ma un passaggio tra la rete rotta e cespugli di ortica e, forse, margherite. In un’altra stagione. Erano scesi, la donna grassa parlando a voce alta, al solito, tutta un Vedrete che quadri! Vedrete che belli! Eccola! Una delle finestre della casa, persiane scolorite da anni e anni di desolante apri e chiudi, s’era aperta e una mano che salutava s’era portata dietro una voce cristallina Eccomi, scendo! Un attimo… In cima alla scaletta esterna, che finiva in un pianerottolo con due vasi di terracotta addolorati da una cascata di foglie secche di un’irriconoscibile pianta un tempo forse grassa, era apparsa una lunga figura con un fazzoletto a fiori provenzali in testa, mantellina di lana rosa che non riusciva ad ammorbidire le spalle ossute. Scendeva lievemente le scale, come sfiorandole, trattenendo a fatica due grossi cani slanciati, unica immagine d’eleganza. In quello squallore.
– Non temete, sono buoni, Aldebaran e Astra. Ché mica gli si possono mettere nomi di santi, creature di Dio, certo, ma sempre bestiole! –
Sembrava ci tenesse a spiegare, voce come musica, mentre si girava e riapriva la porta da cui era uscita che intanto s’era richiusa come sospinta dal pudore, invitando i tre. Dal fazzoletto in testa uscivano ciuffi scomposti di laniccia grigia che spiovevano sulla mantellina. Ferma sulla soglia, tenendo la porta, aveva fatto entrare. La casa quasi al buio. Un forte odore di urina di gatto. La donna giovane s’era sentita sollevata nel vederla, con quei suoi scarponi da montagna da cui uscivano le calze di lana, una rossa, una a righe viola e bianche, con due grossi buchi all’altezza del polpaccio, precipitarsi ad aprire le quattro finestre. Apriva i vetri, apriva gli scuri, richiudeva i vetri. L’odore intrappolato dentro. Senza speranza d’uscire. E, a ogni apertura di scuri, si svelava un po’ di più dell’enorme stanza. Due, tre cavalletti con tele incompiute sopra. Una coperta da uno straccio tutto chiazzato di colore. Un tavolo fratino di cui si scorgeva la crociera di ferro battuto sotto stratificazioni di polvere d’anni, completamente ricoperto di vaschette con resti di colore, fogli di carta disegnati, alcuni piccoli busti di gesso, uno ritto, uno coricato, senza naso, pezzi di tela, alcuni fissati solo da una parte al telaio sconnesso, bicchieri con resti di chissà che, una scodella con dentro un osso di pollo, e pennelli, pennelli puliti, pennelli imbevuti di colore, pennelli senza più che due, tre peli, pennelli grandi, medi, piccoli, una bottiglia di cristallo vuota, una che doveva aver contenuto del vino, ma chissà quale. L’etichetta non era più leggibile. E poi una tazza grande, con dentro del colore secco. Un piatto di porcellana, Meissen? Sempre con resti di colore. Una fotografia di D’Annunzio con dedica: A Elvia con amore, Gabriele. Una teiera. Vuota? piena? libri uno sull’altro, libri e polvere, polvere, polvere ovunque. Quasi fango, in quell’odore acre. E la donna col fazzoletto per niente a disagio che parlava, parlava e invitava a guardare le pareti. Che grondavano quadri. Suoi. In vendita. Magnifici.
E i tre avevano comprato. E poi erano scappati via.
Elvia Mandolesi – La bocca della verità. Pastello su carta. 1921.
E invece succede può succedere insomma quando proprio credevi che no – piccole avvisaglie sospetti può succedere che – certo, la cura conta prima solo una minuscola gemma poi il boccio poi finalmente il fiore, bianco, puro, splendente.
Può succedere che, anche se non ci credevi quasi più, l’amore
Non aspettavo che quel camminare cadenzato quel cercare il tempo clandestino tra una nota e l’altra e il violoncello voce lacrimosa poi riempita di luce espansa innalzata fino ai voli alla tavola grigia del cielo fino alla luce rarefatta briciole bagliori tremolii di pensieri sereni
Ritrovarmi a scandire a ornare il mio silenzio l’aria fresca in faccia qualche minuscola goccia di pioggia
– praticamente sulla prua di una nave – quasi scivolare traslata da via Tiburtina al mio dentro
Stavo insieme alla luce stamattina insieme all’aria
stavo trasparente leggera andavo spedita lasciavo dietro me come una gioia una traslucenza mi dicevo sei brava hai fatto per bene tutto quello che dovevi mi dicevo non hai fatto niente di quello che non. I passi erano perle attorno al giorno le ferite tutte chiuse