Non è che sempre riuscisse a tener salde
le redini della sua irrequietezza. Non è che, pur provando, riuscisse sempre a conquistare quella postura con le mani in grembo e la testa leggermente reclinata seduta su una di quelle seggioline di legno impagliato davanti la finestra chiusa, a guardare un po’ il cielo, un po’ il prato, un po’ la strada, [se si fosse vista la strada, da lì], un po’ gli alberi, [sempre si vedessero anche gli alberi], un po’ le nuvole, ah! Le nuvole, e gli uccelli, ce n’è sempre qualcuno che vola, no? Un po’ le farfalle, [quelle, più difficile], un po’ un ragnetto penzoloni all’angolo della persiana, un po’ una cornacchia sull’antenna del palazzo di fronte.
Un po’, niente.
Gli occhi persi dietro un ricordo di chissà quale colore, quale odore, quale sapore, era quella volta lì? Scuotere piano la testa e no, non era.
Ricordo sempre più lieve, sempre più vaporoso, evaporato, fino a che anche lei evaporata, lieve. Immobile. Solo una scia confusa di qualcosa che.
Non è che riuscisse sempre a vedersi placida e priva d’attese
immersa talmente ormai nel tempo da non sentirlo più. Tempo amniotico. Conglobante.
Completamente scollegato da qualsiasi ticchettio d’orologio.
Non è che riuscisse a vedersi finalmente sazia
di questo e di quell’altro, pacata, compiuta, senza più domande, senza scatti, senza allarmi, senza trasalimenti.
Non ci riusciva ancora del tutto.
In realtà, non ci riusciva neanche un po’.
Ma ci stava lavorando. Sì, sì. Da un po’.
…
…
…
(by poetella)