Quanto ancora dovrò sopportare questa me che ti cerca, ti legge di nascosto
tu non lo sai, ma ti legge
e mi viene a riferire.
Quanto dovrò sopportare questa sciocchina che vuole ancora tessere fili, legare lenzuola per scappare da questo desiderio, chiudere gli occhi, tapparsi le orecchie per non sentire la sua voce che ancora ti chiama.
Quanto dovrò sopportare queste domande che mi fa, la poverina.
E non voglio risponderle, ché io lo so, io so bene, io so tutto, ma lei no, lei crede di non sapere e vorrebbe sapere, crede di avere ancora un fiocco rosso legato alla speranza, crede di poter dire ancora, dai, ancora. La stupida.
Quanto dovrò sopportare questo caldo maledetto che butta una nebbia addosso alla volontà, alla saggezza, alla voglia di vivere.
Oggi mia sorella, la mia gemella lontana, che sento solo al telefono e non vedo da un sacco di tempo,
(ma questa è un’altra storia)
mi ha spedito una foto che mi ha commosso.
Quasi 40 anni fa, e sì, tra poco il mio primo nipote compirà quarant’anni, insomma, quasi 40 anni fa io tagliai, cucii e ricamai quelle camiciole che ho postato in foto. Camiciole che poi usò, dopo cinque anni, anche mio figlio e l’anno dopo la seconda figlia di mia sorella.
Beh, lei le ha conservate e siccome sta per nascere la sua prima nipotina (ha già due nipoti maschietti) ha pensato bene di “rinfrescare” le camiciole e passarle alla nascitura, che così ne continuerà la storia.
Io non sapevo le avesse conservate. E rivederle mi ha proprio commosso. Ho ricordato… e
Sono deliziose, vero?
Poetella era bravina (forse grazie ai nove anni dalle suore, chissà!) no?
Altri pensieri, altri accostamenti guardando le rose sconcertate per il vento
– pazienza, pazienza- ripetevano mentre dondolavano agitate da questo forsennato sconquasso
– pazienza, resistere. Non farsi strappare i petali carichi di bellezza, che poi, anche se, altri ne verranno, altro splendore, altra spumosa meraviglia. Basterà la cura.
E sì che ci sarà cura, come ci sarà cura per tutto il bello che mi levita in cuore, per tutto il profumo di speranze – quante e quante!
per la meditazione sulla molteplice, indescrivibile in fondo, creativa resistenza della gioia nel mondo, nonostante
Sì, oggi vi presento alcuni oggettini delle principali manifatture tedesche (e non )del ‘700.
Ovviamente di Meissen molti avranno sentito parlare. È la prima manifattura di porcellana europea, sviluppata dal 1708 da Ehrenfried Walther von Tschirnhaus e dal suo aiutante, l’alchimista Johann Friedrich Böttger, che ebbe il merito di introdurre i pezzi sul mercato. Nel 1710 fu fondata la fabbrica di Meissen che, per dieci anni, fu l’unica a produrre porcellana.
Prima d’allora l’unica porcellana sul mercato era la cinese, cinesi che gelosamente ne custodivano il segreto di fabbricazione.
Ma, e non sto a raccontare le vicissitudini, gli “alchimisti” di Meissen riuscirono a scoprirlo.
Poi il segreto, per quanto si cercasse, anche tenendo prigionieri gli stessi alchimisti, di tenerlo celato, trapelò.
E da lì seguirono le altre manifatture. Prima Vienna, poi Venezia, poi Sevres e poi tutti gli altri.
In foto potete vederne alcuni esempi:
la piccola compostiera di Meissen, del periodo Marcolini, (che dal 1774 al 1814 fu direttore della manifattura), periodo riconoscibile dall’asterisco tra le due spade incrociate
il marchio di Marcolini
la caffettiera, sempre Meissen metà ‘700,
il piccolo panettiere col vassoietto di dolci in mano della manifatturA di Hochst, fine ‘770, primi 800
la coppia di puttini contadinelli, Meissen, primo ‘800
la fanciulla coi grembiule pieno di fiori, della manifattura di Vienna, ‘700
e sul muro, uno splendido vassoio di Berlino, 1820, col decoro a volatili da cortile.
Per cosa credi che cammini con le Goldberg sparate nelle orecchie, no, non Gleen Gould, no, la trascrizione per archi, sai? sparate forte forte nelle orecchie, ogni passo un vibrare di archetto, uno scoccare di nota, e una trattenuta, una troncata, e una scia, un fruscio…
Ma sì, sì, che ti pare, io ci provo, sai?
Per cosa credi che mi perda a guardare le aiuole fiorite o anche solo quei ciuffi spontanei di fiori gialli e quelli piccoli piccoli viola e quelli appoggiati ai sottili steli allungati e lisci, cicoria selvatica m’hanno detto e mi commuove sempre quell’azzurro, mi strugge, mi sfinisce di malinconia, uno stordimento, per cosa credi che io…
Sai, sto portando avanti questa battaglia da cavaliere senza armatura, poveraccio, non ce l’ha l’armatura, niente corazza, niente elmo, niente spada né mazza, né cavallo. Niente. Una tartaruga senza guscio E porto avanti questa battaglia a testa bassa, così bassa che quasi non vedo più niente, solo i fiori raso terra o appena un po’ più su e invece dovrei guardare le nuvole, se ci fossero le nuvole, e i voli, se ci fossero i voli, o magari il cielo, lo spazio ampio, disteso, infinito attorno.
Tutto a testa bassa per non guardare come è diventato questo grigio, crudele, sciagurato mondo
Ma che si deve partire per forza? Si deve andare per forza da qualche parte? Dove sta scritto?
Beh, d’estate… dice.
E io, ma lo vedi come sto? Lo vedi che m’appare davanti agli occhi quando esco in balcone? Li vedi i miei fiori? Che poi, sotto c’è anche la piscina. Certo. Potrei andarci. Ma non ci penso per niente. Odio il caldo. Odio l’estate.
Io esco pochissimo, mi godo la casa, mi godo i miei fiori e aspetto che passi. Tanto passa. Questo, per lo meno, passa.
Ma guarda che vento, senti che vento senti come sposta senti come spinge, rivolta, strattona senti come solleva, come trascina come fa posto a
ma come, cosa ormai potrei dire del vento in questo cubo di porcellana dove tutto è fermo tiepido solo di condizionatori calibrati al minimo per economizzare speranza