(foto dal web)
qui la voce di poetella
Quando sarà cominciato?
Che poi, chiederselo. A che serve? Risposte negate. Impossibilitate conoscenze. Troppo stretto, un pertugio con la lucina in fondo, lo spazio del sapere. Comunque, camminare e domandarsi. Camminare e tentare di rispondersi. Non si cammina mai troppo, non trovate?
Dunque, anche stamattina. E chi se ne frega del traffico. Io vado a piedi. La Tiburtina, guardala là, di mattina.
Però ci sono i pini, le acacie, i piccoli ciuffi di papaveri da guardare. Le nuvole. Ma che stavo dicendo? Ah, ecco, quando sarà cominciato. Da dove questa fame, questa voracità d’amore, di riconoscimenti, di attenzioni, di approvazioni, d’attestazioni scritte e cantate di merito. Di sfide, di superamenti. Da quando? Forse da quella prima volta?
Da quel misterioso, angoscioso senso di perdita, d’inspiegabile privazione (e cosa avrà provato la bambina senza le parole per dirselo, per chiarirselo) senza più quel bum bum bum di piccolo qualcosa veloce che scandiva l’annacquato, fluido tempo in duetto con quell’altro bum bum bum più lento, più calmo, più mutevole nel buio di strani riflessi (bluastri? Rossastri?) e trasparenze, prima che le idee, idee, prima che le parole, parole, prima che i colori, i suoni, l’accecante molteplicità delle forme.
Prima che la conoscenza, l’esperienza, gli sbagli.
Forse sarà stato quel sentirsi tutto quel vuoto attorno, addosso, tutto quello spazio fresco, era settembre, che lei lo sapesse o no e non lo sapeva, non sapeva ancora niente, o forse sì, ma non sa adesso cosa sapesse, senza più quel qualcosa appiccicato alla vita, all’essere, che si muoveva, pulsava, piccoli suoni, piccoli contatti, aderenze. (sicurezze?) Senza più quel qualcosa senza nome, senza volto, senza forma se non quella percepita come un resto di sé oltre quell’elastico velo, con quel piccolo bum bum bum,
e poi un qualcosa, un evento, un accadimento nuovo, spintoni, strattoni, rumori, dolore e poi più niente. No, niente. Diverso. Forte. Sconosciuto.
Sarà stato quel terribile quarto d’ora, quanto? Dieci minuti, dice un quarto d’ora. Dice
– C’è n’è un’altra, signora bella. E la donna
– Un’altra? Perché una è già? Posso avere un goccetto di Cognac, Madre? E la suora
– Ma veramente non saprei. Posso, dottore? e il dottore
– Ma sì. Ce l’abbiamo, no? Glielo dia.
Quel quarto d’ora nel vuoto duro senza voce, senza quasi respiro, in attesa, quasi morta. In attesa che un altro pianto, il pianto di quell’altra cosa, quel prolungamento strappato, quel pianto di anche lei. Finalmente nel mondo.
E poi piangere insieme. Di nuovo.
Sarà stato quello a…?
Si può mai fare niente per cancellare, filtrare, comprendere, accettare, assimilare, reinterpretare quel primo quarto d’ora? Si riempirà mai quella mia solitudine infinita di quel primo quarto d’ora per la prima e non ultima volta senza te, sorella mia?
E comunque, cambiando discorso e destinatario del pensiero…
Quante volte hai pensato a me, oggi, tu, amore mio, visto che domani… noi…
…
…
…
(by poetella)
Brahms Lullaby
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