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Il tempo a loro disposizione probabilmente era quasi agli sgoccioli.
Quanto?
Mesi? Un anno. Due?
Quanto era il tempo, tutto il tempo che sarebbe stato loro concesso, ancora?
Quanta vita sarebbero riusciti a condensare, a bruciare fino allo spasimo, tutta serrata nelle ore che restavano?
Ogni minuto era stato vissuto così. Da sempre.
Dall’inizio. Tutto concentrato, contratto nel poco tempo disponibile.
Forse questo il segreto di quella medicina che era arrivata al posto che doleva, sanandolo.
Forse questo il segreto del loro ritrovarsi sempre accesi, affamati. Gonfi d’attesa.
Bombe innescate, programmate per esplodere.
Sì può vivere esaltati ogni istante se si sa che ci sarà un susseguirsi d’istanti, ore, mesi, giorni, anni, ancora. E ancora?
Loro non volevano questo. Non l’avevano mai chiesto. Mai richiesto.
Sì, all’inizio lei, forse, s’era spaventata della fine. Aveva protestato, sperato in proroghe, aveva anche pianto nella paura del mostro che si sarebbe materializzato, un giorno. Dell’addio.
Ma poi, poi, no. Poi no.
Aveva imparato da lui. E lui da lei, che quello che volevano era esattamente quello che avevano.
E sapevano, avevano saputo ottenerlo. E conservarlo. Erano stati bravi.
In un libro lei aveva letto “…forse non gli ha insegnato nulla, sì è limitata a soffiare via la polvere da un testo antico chiuso dentro di lui”* e aveva scambiato i pronomi. Poi li aveva rimessi a posto.
Lei, lui. Insegnare, imparare, soffiare via.
Scoprire il nocciolo della loro vera natura.
Esternarsi senza ombre.
“ci lasciamo sempre con un seme di desiderio. E lui germoglia” aveva detto lui.
Ma avrebbe potuto dirlo anche lei.
E quando finirà, finirà.
“bello come in sogno o come nei templi indiani”* così era, per loro.
E quando finirà, finirà.
…
…
…
(by poetella)
*da “Col corpo capisco” di David Grossman
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