Il gatto nero che riposa sulla yucca, tutto ferito, che mi viene incontro e si struscia contro le mie gambe, zoppicando.
Un vecchio biglietto vidimato della metro, con scritto qualcosa che non si legge più. Ma si sa.
Il punta spilli a forma di coniglietto fatto da nonna. Che spunta da un cassetto. E l’avevo dimenticato.
Quella nuvola a forma di cuore. Rosa. All’alba. Mentre, ovviamente, pensavo a
Una scatolina trasparente, prima conteneva formaggini, forse, con dentro una ciocchetta di capelli sottili sottili, e un dentino.
E, sempre mettendo a posto cassetti, un nastrino rosso e una carta dorata. Che non ricordi più cosa contenesse. Ma non importa.
Il bastoncino con la punta azzurra tutta scolorita, del test di gravidanza. Di tanti, tanti anni fa.
La fotografia della classe. La prima classe. Coi fiocchi sul grembiule nero. E la suora maestra. Alta alta. E sorridente. Ed io vicina a lei, tra quaranta ragazzine. Fiera.
Papà che mi diceva Che occhi verdi che hai! E non ci vedeva quasi più.
Mia sorella che mi chiama Cia mia.
Papà che mi chiamava Amore. Piano piano. Piano piano. Dolcemente.
direi che per avere molto più di cento anni… ancora dai le piste a molti, no?
Sei il mio preferito, lo sai, vero?
(Tappeto di Malayer, Persia, metà 800)
P.s.
E che dire del copriletto in seta, anni 50, di Frette…con quellafrangia pazzesca? Non le sanno fare più ‘ste cose belle! Conserviamole. E anche i bei ricordi. No, quelli meglio di no.
Pensavo dovessi smettere pensavo fosse arrivato il tempo esatto il giorno l’ora di svuotare i cassetti rivoltare il materasso cambiare il posto dei giorni spostare scambiare partire prendere per le ali i sogni morti tirarli giù affondarli nel mare nero cupo e profondo del niente
pensavo si potesse ri_comincire a scrivere una bella storia straniera. Ma
come poter ascoltare un quartetto per pianoforte e archi di Mahler nella casa in silenzio, senza una televisione che parli, una voce che parli, un vicino che parli, o la strada in basso, lontano, che parli, o qualche cornacchia appollaiata su un’antenna, guardinga e impettita, senza nemmeno un gabbiano che lanci i suoi gridi sgraziati, per quanto aggraziato sia lui in volo, non fermo, in volo
senza paragone
come poter ascoltare la voce sommessa di un cipresso che scricchiola al tramonto, quasi sera, assediato da migliaia di girasoli, con alle spalle l’abbazia di San Galgano, deserta, quasi sera e poi notte, e tutto silenzio, nessuna voce di turista ormai rifugiato a bere Martini o chissà cos’altro, a mangiare gelati, a leggere giornali o riviste o che ne so, libri no, chi legge più, ormai? ormai stanco della giornata in giro per bellezze, in attesa della cena, senza voci di bambini tutti a portare avanti i loro ultimi giochi della giornata, lontani quanto basta per non ascoltarli, solo la voce del cipresso che scricchiola e quasi sera, quasi notte
senza paragone
come ricordare il soffio del tuo respiro tra i miei capelli e nessun’altra voce, né sotto, né sopra, né di vicini, né di lontani, né del mondo indaffarato, assente, sconosciuto, dimenticato, e né sferragliare di tram o di autobus nella città esagitata, fremente, asfissiata, né clacson di auto ribollenti nel sole di luglio, dove diavolo se ne andranno mai! né abbaiare di cani o miagolare di gatti, solo il soffio del tuo respiro tra i miei capelli
Oggi, sì, camminavo e, improvvisamente, ho sentito un odore che m’ha scaraventato indietro, indietro negli anni. Negli anni e nello spazio.
Un odore che sentivo quando, piccolissima, passavo sotto una specie di galleria, che non era proprio una galleria, era forse un passaggio sotto palazzi antichi, a Terni, e c’era un piccolo bassorilievo che nonna mi diceva Vedi? Quello è San Tommaso.
E l’aria era profumata di legna, di vino della vicina osteria e di sugo con l’agnello per le fettuccine fatte a casa.
Nonna le faceva benissimo, sottili sottili, stesa la sfoglia tonda sul tavolo quadrato della cucina con la tovaglia di lino bianco e questo enorme disco che pendeva dai quattro lati, giallo giallo, che nonna piegava con una velocità che mi sorprendeva, di qua, di là, zic zac, zic zac, tutte le volte mi sorprendeva e poi velocissimamente tagliava con un coltellaccio che io vedevo enorme, tac tac tac tac tac tac, ma forse non lo era.Tutti tagli perfettamente uguali.
E infine prendeva questi rotolini affettati che, quasi per magia, ai suoi movimenti precisi e sapienti, si trasformavano in un grappolo di fettuccine gialle e profumate nelle sue mani sollevate in alto.
Che io andavo a assaggiare poi, così, crude, un pezzettino piccolo, senza farmi vedere. Ed erano buonissime!
Ma guarda te un profumo dove ti riporta!
Deve essere per questo che è un bel po’ che non metto Opium, il mio profumo preferito. Ne metto altri. Quello sta lì, chiuso. E non lo metto.
Oggi mia sorella, la mia gemella lontana, che sento solo al telefono e non vedo da un sacco di tempo,
(ma questa è un’altra storia)
mi ha spedito una foto che mi ha commosso.
Quasi 40 anni fa, e sì, tra poco il mio primo nipote compirà quarant’anni, insomma, quasi 40 anni fa io tagliai, cucii e ricamai quelle camiciole che ho postato in foto. Camiciole che poi usò, dopo cinque anni, anche mio figlio e l’anno dopo la seconda figlia di mia sorella.
Beh, lei le ha conservate e siccome sta per nascere la sua prima nipotina (ha già due nipoti maschietti) ha pensato bene di “rinfrescare” le camiciole e passarle alla nascitura, che così ne continuerà la storia.
Io non sapevo le avesse conservate. E rivederle mi ha proprio commosso. Ho ricordato… e
Sono deliziose, vero?
Poetella era bravina (forse grazie ai nove anni dalle suore, chissà!) no?
E ancora il vento. Come una minaccia, un vortice d’instabilità. Si sta appesi ad un pensiero mani serrate. Aspettando l’onda dopo fioriture, un placarsi di cieli, promesse consolidamenti.
Ancora il vento. Sparpaglia disperde minacciando – siamo ancora così fragili! – Aggiunge petali a petali strappati Porta via, porta nuovo, ruba. E poi distrugge. Ricostruisce più in là.
Solo chi è forte dura. Non si lascia spezzare. Non piegare. Non piagare.
Resiste. Saldo d’amore. Come una stella fissa. Che ancora si vede.
A volte, anima mia, quando la casa è silenziosa in uno dei primi caldi pomeriggi di aprile e i rintocchi della pendola scandiscono il tempo tra un cinguettio di passero, un lontano, ovattato suono di clacson e il verso scuro e sincopato dei piccioni sulla grondaia
a volte, ma davvero non sempre, credimi, non sempre, a volte girando dolcemente le pagine del libro che sto leggendo come sfogliassi un album di ricordi dolci e lontani
a volte, anima mia, e t’assicuro che capita proprio raramente, quando un soffio di vento tiepido irrompe dalla finestra valicando il delicato muro di gerani rossi sfavillanti di trasparenze in controluce, allora mi sorprendo a ricordare i nostri giorni lontani, quando eravamo primavera.
Ma in fondo anche un autunno può essere dolcissimo, no?
Eppure ci sono momenti, sai come quando arriva l’onda sulla spiaggia e ritirandosi lascia tutte schifezze bottigliette di plastica, una vecchia ciabatta, cicche di sigaretta -quante! –
Sai come quando pulisci sotto al letto e esce fuori anche un bottone che stava li chissà da quanto, da quando, da dove.
Insomma come quando credevi di aver sistemato tutto eliminato l’inquinamento le erbacce fatto piazza pulita del marcio del superfluo del dannoso
E intanto sorridevo camminavo soletta e sorridevo piano mentre s’affacciava la tua voce che Allora festeggiamo, no? dicevi, e io Adesso? Certo. Adesso! dicevi tu
Strano come ancora oggi, oggi che le notti si riducono,
come lentamente si riduce la nostalgia dei bei giorni e tutto si diluisce, tutto sfuma, era lunedì, o magari martedì, forse martedì o mercoledì il giorno che vidi per la prima volta i tuoi occhi? E l’ultima?
Ancora oggi che tutto sfuma, tutto si diluisce
come i colori del giorno quando cala la nebbia o quello dei miei capelli sotto la tinta artificiale metafora di giovinezza
ancora oggi che, in fondo, la libertà non fu certo ponderata scelta,
ma semplice conseguenza dell’evaporare dell’amore, oggi mentre tutto sfuma, tutto si diluisce come le urgenze di bambina capricciosa, di gemma a primavera, di tuono lontano annuncio di temporale
ancora oggi, saltuariamente, serenamente, dolcemente, quasi sorridendo
Oggi voglio scriverti una lettera che non spedirò.
È il tuo compleanno, no?
Dunque voglio scriverti una lettera che non spedirò
e non per ricordare il passato, no, dai che poi è talmente prossimo non certo per ricordare il passato oggi ti scrivo caro mio
semplicemente perché io parlo spesso con te ti parlo con accorate parole o buttate là come per caso con parole a volte accese a volte pallide pallide come i petali di una peonia sfiorita.
E dunque non è per ricordare il passato ché per me nulla è mai passato tutto se ne sta racchiuso nel mio scrigno di pensieri e mi fa teneramente compagnia.
È che volevo dirti che sono andata avanti, sai? Ah! Come sono andata avanti.
Ti ricordi? Quella donnina che anni fa implorava chiamava non resisteva un giorno puntava i piedi cercava e voleva convincere convincerti convincersi e si ostinava a rotolarsi nel dolore e piangeva e s’addossava colpe inesistenti e non sapeva staccarsi non sapeva sciogliere il palloncino non sapeva prendere in mano il suo destino accettando camminando sicura senza mappa senza guida senza paura senza voglia di guardare nell’offuscata sfera di vetro del futuro.
Te la ricordi?
Non c’è più. Morta. Al suo posto ci sono io salda e forte e libera.
Se ne sta lì, come un cencio. Unico paesaggio concesso agli occhi, Le matin del Vernet, davanti al letto. Da anni. Due, tre? Neanche in finestra. Neanche in balcone. Piazza di Spagna? dice, no, non me la ricordo. Non ricorda più niente. Magro magro. Pelle e ossa. Solo quando sorride torna ragazzo. Con quel viso, neanche una ruga. A novantasei anni.
Oggi mi fa Quando starò un po’ meglio voglio andare a Bologna. Da tua sorella. Quando starò un po’ meglio. Ci vado.
Oggi è bruttofuori. E allora scrivo per colmare il bicchiere di tempo tra quell’ultima volta che t’ho visto a quella in cui non ti rivedrò. Più.
Scrivo ordinatamente per tenerti aggiornato sul come cambierà il colore dei miei occhi e delle mie ore e dei giorni e degli anni scompigliati che non passerai con me.
Perché tu non mi perda del tutto, scrivo distrattamente, né io perda te perché tu trattenga all’angolino sì, a un niente dall’inconscio questo mio viverti accanto invisibile. E niente che ti riporti la mia voce. Né a me la tua.
Scrivo e ti racconto delle oscillazioni della malinconia del trascinarsi zoppo dei desideri e lo so lo so non leggerai non sentirai. Non vedrai. Ma io scrivo e mi consolo di questo fiume d’amore dove a volte nuoto e a volte affogo e mando al diavolo il tempo che m’avanza. Troppo. Ché vorrei dormire. E svegliarmi
tanti minuscoli uccelli riempire tutto il cielo tra il tetto del mio balcone e il palazzo di fronte.
C’era da far sobbalzare il cuore in petto per lo stupore, per il fremito di speranza di tutte quelle ali così sincrone, così ordinate e al contempo frenetiche, guizzanti. Fugaci.
Mi meraviglia sempre il cielo smosso dai voli. Quel loro andare verso una meta precisa (chissà dove se ne andranno? Chissà perché, per quanto, guidati da chi, da cosa? Torneranno?)
E poi il silenzio,
strano il silenzio, neanche un fruscio, eppure sembravano così vicini. Tanti, una moltitudine a onde. Che pareva finita e poi, no, eccone altri, ricominciava, come ricominciano spesso certi nostri pensieri che sembrano abbandonati e invece.
Ma era bello, come sono belli quei pensieri, dettagli che persistono, che quando ci tornano in mente, come si fa, come si fa