Non sono triste. Sarà la musica, che poi non è mica triste questa musica.
Sarà il caldo, allora. Che poi, dentro casa c’è un fresco da Dolomiti.
Dunque non sono triste. Che credi, le cose passano, le cose si trasformano. Tutto scorre, diceva qualcuno che sicuramente ci capiva. E tu? tu hai capito?
Non credo, sai. O forse sono io che non ho capito.
Anzi, sicuramente sarò io.
Certe cose non si riescono proprio a capire.
I salmoni, per esempio. Ma chi glielo fa fare a nuotare a rovescio, con tutta l’acqua contro. Chi me lo fa fare a continuare a pensarti. Con tutta la ragione contro.
Ma tu, tu m’immagini mai ti metti mai lì tra consapevolezza e sogno ti figuri il mio viso mentre, che ne so? cammino o sorrido o piango. Incornici mai fotografi mai coi pensieri il ricordo di un sospiro di uno sfioramento di vento dalla porta socchiusa giusto giusto per me arrivata in festa?
E quel mettere e levare gioie e tristezze e dubbi e battere il tempo quando il tempo era danza, ci ripensi mai?
Ci credi, mi ci vedi che sfilo le perle di quei nostri lontani giorni e le conto e riconto le conto e riconto e i conti non tornano mai
………………………………………………………………………. Ma tu, tu dove sei? Si continua a camminare. Sassi lungo la via. Aggirarli. Oppure scavalcarli. Dipende dalle forze residue. Poche. Decisamente poche. Ti credevi un supereroe, carina?sei solo una donna. E dunque. Tuttavia, continuare a chiedersi
…………………………………………………………………… Ma tu, tu, dove sei?
Abbiamo collezionato scatoloni pieni di ricordi. Polverosi, ormai. Decisamente polverosi. Forse non polvere. Forse s’è tutto sbriciolato. Ruggine. Resti friabili di un sogno. Siamo svegli, adesso. Lo sai, vero, che ho smesso da un po’ di sognare. Vivo di piccole cose terrestri. Ho lasciato le terre degli Iperborei. Da un po’. Ma tu non lo sai. no. Credo di no. Tu non sai più niente di me. O quasi. Indubbio che se volessi sapere, se proprio volessi, potresti. L’aria è satura del mio pensiero. Ti basterebbe respirarne un po’ e sapresti. Ma tu, tu vivi in altre atmosfere, ormai. Credo. Ed io controllo l’insorgere maligno di eventuali altre piccole rughe. Niente, per adesso. Mi riconosceresti. Sono sempre io. Quella che chiamavi la tua Belladonna.
…………………….…… Ti scrivo da qui, dal silenzio delle mie sponde ti scrivo da questo mare nero di notte, questa costa a strapiombo ti scrivo piano senza rumore, se vuoi ascoltare ascolti, se no, no.
…………………………………… Senza nemmeno un fruscio ti scrivo
Come una nenia ti scrivo, un dondolio, una preghiera, un cantico lamentoso, un verso luminoso che sveli, che mostri, che schiuda gli occhi alla minuscola chiarità di lucciola. Leggimi, dai!
Ti scrivo e mentre ti scrivo ti cerco in fondo ai ricordi, le mani a coppa ti ricreo, ti vedo. Ti tocco, ti carezzo, ti sorrido. Ti guardo.
………………………………Vuoto. Tempo vuoto come vuote sono le parole che si porta il vento, ma dove se le porterà mai se non c’è luogo, non c’è spazio che contenga, che raccolga, non c’è cuore che risponda, che domandi, che s’aspetti qualcosa dal vento o da chi sa che. Chi. Come. Dove.
………………………………Vuoto. Tempo vuoto come vuote sono le tasche della vestaglietta di casa, senza fazzoletti che tanto che piangi a fare se qui è tutto vuoto e nessuno ascolta e nessuno placa e nessuno torna a ricucire lo strappo e nessuno medica, lenisce. Sana.
………………………………Vuoto. Tempo vuoto come vuote sono le giornate, poca fatica, molta noia, a ricontare i giorni delle comete e delle valanghe che hanno rivoltato il mondo largo largo tondo tondo troppo grande o troppo piccolo per contenere
E lei si domandava Ma quando diavolo finirà ‘sta storia che ogni tanto, improvviso, mi scoppi in testa come un foruncolo pieno di pus, dolente, infiammato e m’infetti, m’infetti tutta di desiderio febbricitante velenoso
con i piccoli bocci di rosa, a interrogarli, Quanto ci vuole ancora? quando il colore, il profumo? Senza chiedere Rispondi! E infatti niente risposta.
……………………………………..Mi sono abituata a parlare
coi gerani e le begonie, in fondo senza aspettare che rispondano, senza ordinare Rispondi! perché dovrebbero rispondere? perché sprecarsi a mettere insieme tre, quattro paroline profumate, loro amano i silenzi, al massimo fruscii di vento o lievi gocciolii di pioggia, non lo scroscio, temono lo scroscio, in fondo tutti lo temiamo, no?
…………………………………….. Mi sono abituata a parlare
addirittura coi merli, i passeri, ogni tanto qualche rondine chiedere dove se ne vanno, no, no, non chiedere, sospettare, cosa vedranno mai di lassù, che prospettiva ampia, che visuale, oltre, molto oltre, ed io?
…………………………………….. Mi sono abituata a parlare
con le nuvole, l’aria, l’acqua del Tevere, stasera persino la luna e se ci fosse stata qualche stella, c’era, sicuro, ma non la vedevo, troppo inquinamento luminoso a Roma, avrei parlato anche a lei, ma mica chiedere, no, solo parlare
un passo dopo l’altro, il secondo movimento del concerto n° 21 nelle orecchie. Mozart.
Mozart.
O forse pensava
……………………………………– com’era quando?
E i ciuffi di malva al bordo della strada che grondavano primavera e le bocche di leone
gialle gialle e le margherite e Mozart e lei, niente sorriso, aria addosso, il passo accelerato ogni volta che
………………………………….– ma come posso, senza? Come posso più?
o forse ogni volta che
…………………………………– tanto ce la faccio. Tanto sì.
Il passo veloce, la gonna aderente a contrasto, tesa, fasciante come i ricordi. E un altro
camminare. Un altro andare. Un riaffiorare, non ostante.
E progettava mille e mille improrogabili occupazioni, mille e mille impellenti faccende,
mille e mille indiscutibili priorità da affrontare in quel giorno e in quello dopo e negli altri a venire, intollerabili, senza fermarsi, ché se si fosse fermata, se si fosse fermata anche solo un attimo, se avesse smesso di sfiancarsi in mille e mille fatiche titaniche, dolore alle braccia, alle mani, alle gambe, alla schiena, alle ginocchia, ché se si fosse fermata anche solo un attimo
……………………………………..– ti ricordi quando?
sarebbe precipitata nel cunicolo della nostalgia
ché l’unica salvezza è nel fare, aveva detto qualcuno in un vecchio film
L’unica salvezza (salvezza? Ma per piacere!) è nel fare.
……………………………….lo vedi com’è? Lo vedi come fa? Tutti gli anni l’albero davanti all’ingresso di scuola si riempie di sospiri rosa che, in un giorno di gran vento l’anno scorso, pareva sembrassero piume d’ali d’angelo …………………. lo vedi com’è di nuovo? Lo vedi come fa? L’albicocco, nel patio, anche lui una festa di bianco che trema al poco vento, come tremo anch’io ogni volta che ricordo quella curva tra il tuo orecchio sinistro e la spalla dove affondavo le labbra, dove affondavo i sogni. Seta su seta gioia su gioia. …………………………… E lo vedi com’è? Lo vedi come fa? Carica di sorrisi gialli la mimosa odorosa, ancora, ancora a offrirsi al giorno, come gioiosa offrirei il mio sorriso se dovessi mai incontrare, che ne sai?i tuoi straordinari, indimenticati occhi.
. Lei guardava quieta la tenda fitta fitta della pioggia dritta dritta come lo sguardo al futuro – solo una piccola ruga nel mezzo del cuore – e i pini bevevano docili ascoltavano il tuono tolleravano raffiche di vento. E il vento che vento! In petto le rimbombava una consapevolezza di fine di putiferio di forza suprema maligna dominante e intanto lasciava scorrere il tempo
un andare di foglia sull’acqua inconsapevole e molle senza domande. Senza pretese.
Solito tran tran Faccenduole. Ascolti. Discorsi scorrevoli o con brusche interruzioni volontarie o meno. Concentrazione di media o breve durata. Sorrisi, qua e la.
A livello più basso, diremmo ipogeo – così tanto per – una pozza nera. Stagnante. Chiusa falda avvelenata, roccia scura impregnata. Affioramenti, a volte.
Ma sì, certo, la musica! La musica. Nota dopo nota a riempire l’aria. Nota dopo nota a cancellare. Ma si cancella, poi? Passare un velo di note sul grigio, sul nero, sull’aspro, sul ruvido. Si cancella, poi? O non continuiamo a tracciare tra una nota e l’altra sempre quegli occhi. Quegli occhi! E quelle labbra, l’infinita struggente dolcezza del ricordo della curva del collo, delle piccole orecchie, e le braccia, le mani. Le mani! Ultimo pensiero, la notte. Primo pensiero al risveglio. Prima dolorosa fitta d’assenza. E poi tutte le altre. E subito la musica. Chiederle aiuto. E ai fiori. Che sono pochi, così pochi nel balcone asfissiato di caldo. Cuore mio, come te. Un’apnea di felicità. Quanto si può, senza?
Convincersene. Dondolare mestamente il capo e convincersene. Mai più. Solo, solo la musica e tutte le altre bellezze. Ma non quella.
Un mesto, mesto cammino sconsolato, senza ristoro se non qualche minuscolo fremito. Davanti al timido, ennesimo boccio di rosa. Piccola coraggiosa, testarda alzata di testa della vita. Lei ce l’ha fatta. La rosa. Ed io?
Amore mio, non mi riconosceresti così, senza guizzi, senz’allegria. Non sono più.
Non sono più. … … …
(by poetella) (Chi mai avrà potuto consolare Adriano?)
. La signora si domandava come mai, come mai guardando la luna, questi cieli così sgombri, questo vento spazzino, la luna un’ostia benedetta, splendente, santa, santificante si domandava come mai guardando la luna le s’infilava in gola qualcosa di tagliente una spina, una lama o un semplice sottilissimo raggio argentato, un’arma affilata. Un dolore.
(un video di poetella) . La signora aveva l’umore piuttosto basso. Tutto quel bagaglio che s’era portata dietro per affrontare il lungo viaggio tutte quelle sciarpe colorate quelle carte, quelle matite da temperare e il temperino, no. Tutti quei cappelli, lei che non portava mai cappelli. E abiti lunghi per la sera, quando la sera, solitamente crollava di sonno, viaggio o non viaggio. E quelle scarpe, sette paia di scarpe dei sette colori tacchi più di sette, pelle lucida, lei che per consuetudine portava scarponcini bassi e comodi per camminare veloce come una nuvola.
La signora pensava proprio di aver sbagliato la programmazione. Di non aver portato il necessario per affrontare questo viaggio faticoso verso la terra desolata della sua solitudine. E s’era seduta sul ciglio della strada su un povero resto di tronco tagliato secoli prima, la valigia a terra le mani in grembo, a guardare la via. Probabilmente piangeva. E non passava nessuno. Nessuno. Solo il vento, che soffiava continuo e sollevava la polvere facendola volare scomposta come in un vecchio film western tra una casa vuota e l’altra.
. Guarda, guarda gli alberi fuori della finestra tremolano i rami a questo vento carichi di fiori guarda il prato tutto bianco. Margherite e qua e là giallo e viola. Niente rosso ancora ma arriverà.
Nella posta, di tutto. Tuttavia, sebbene cerchi e cerchi quel – Basta piangere. Eccomi. Sono tornato. Non potevo più… – no. Non c’è.
. M’hai chiamata per nome. Per dirmi addio. Ricordavo. Per nome. Dolcezza che lega i denti. Leggere quel nome scritto da te nella luce chiara del giorno. In un ufficio scrivevi. Sui muri scarni proiezioni di ricordi. Tutto un circolare di ricordi come aria smossa da un ventilatore. E leggere, rileggere poi quel mio nome scritto da te. Senso di appartenenza. L’uomo nomina per possedere. Diceva Pavese. Immaginare la tua mano che digita il mio nome. Immaginare il tuo viso. L’espressione dolce, serena, mentre scrive. Com’è normale ricordare il tuo viso. Quel tuo modo di guardare. Accarezzando. Ed io che credevo, invece, che presto… niente. Svaniti i ricordi. No. Mai.
Il mio nome. Non nomignolo. Non le paroline, i giochi di quando… non diminutivi. Vezzeggiativi, amorosi aggettivi descrittivi. Il mio nome. Preceduto e seguito da infinite dolcezze. Tempestato di dolcezze. Hai scritto. Strano addio il nostro. Un nastro rosso. Che lega. Sei sempre qui. ed io da te. Lo so. Lo sai.
Ma quanta, quanta primavera quanta ce ne vorrebbe per farsi toccare dagli occhi questi occhi accecati questi spilli conficcati nel vuoto d’assenza quanta luce quanta gloria di rosa di rosso di verde quanto manca l’azzurro dov’è l’azzurro tappeto fiorito che scioglie, scioglierebbe l’amaro se solo ma sì, lo sai se solo che.
Quanta primavera e poi estate e poi autunno e ancora inverno dovranno scombussolare il tempo vagabondo senza meta senza te, amore mio evaporato
. Non partirà nessun treno mai più mai più da questa stazione di dolore abbandonata tutto è fermo la campana bloccata arrugginita erbacce nella vasca della fontana secca. Neanche un gatto a miagolare accanto ai rami spogli del rampicante. Chissà cos’era prima. Se fiori. Se foglie.
(un video di poetella) (che si scusa per il sonoro non perfetto… ma la fretta…)
. Cinque mesi. A giorni. Cinque mesi. Prima di attese [come di gatto sul tetto] che faccia giorno oltre la notte o sbuchi una stella o almeno brilli una lucciola una candelina, la fiamma di un accendino per un’ennesima sigaretta
cinque mesi, a giorni poi di dubbi e domande e risposte sbagliate [che gli occhi si siano indeboliti a furia d’interrogare il buio e non vedano più?]
Tra poco cinque mesi ed ecco le certezze ora la luce eccessiva acceca sempre non stupire se chiudo un po’ gli occhi tanto non si ferma il fiume non ci si abitua a queste piccinerie quotidiane senza più quel libro d’oro magico segreto da poter sfogliare per cancellare il niente del mondo tra le sue parole rosse.
Tra le sue parole ancora, in fondo me ne vado girando. Alcune non le sento più da tempo ma a volte ne catturo una, tra i ricordi, una e mi ci appendo e lei mi porta via, via. Via.
Ma tu, tu m’immagini mai ti metti mai lì tra consapevolezza e sogno ti figuri il mio viso mentre, che ne so? cammino o sorrido o piango. Incornici mai fotografi mai coi pensieri il ricordo di un sospiro di uno sfioramento di vento dalla porta socchiusa giusto giusto per me arrivata in festa?
E quel mettere e levare gioie e tristezze e dubbi e battere il tempo quando il tempo era danza, ci ripensi mai?
Ci credi, mi ci vedi che sfilo le perle di quei nostri lontani giorni e le conto e riconto le conto e riconto e i conti non tornano mai