è strano, ma succede. Mi prende una grande tenerezza, amico mio. Stanno passando gli anni e siamo ancora qui.
Al diavolo tante storie, tante strane, velleitarie speranze sdraiate sui cocci di vetro. Tanti grilli per la testa. Questo conta, (so ancora contare, che credi?) questo conta. Siamo ancora qui.
Ti guardo, ti addormenti seduto al tavolo come faceva mio nonno. Ero così piccola. Mi stupiva.
Ora so. Siamo vecchi, amico mio. e siamo ancora qui.
Posso dire che questa cosa mi intenerisce, vero? Me lo lasci dire, no?
E, comunque, succede a volte
è strano, ma succede. M’è venuta voglia di andare a prendere una copertina e mettertela sulle spalle.
Ho continuato a guardarti, e ho pensato agli anni. Anni e anni. Anni e anni.
Eppure lei non era quella che le rimandava lo specchio.
Era lo specchio ad essere vecchio, con tutte quelle macchie (questa mania dell’antiquariato!)
con tutte quelle rigature, (magari una pulitina sarebbe servita, che ne sai?)
lei era quella della stanza rossa, quella che Sei stupenda, guardati, diceva la voce, la voce morbida, la voce che quasi non ricordava più. Ma che avrebbe riconosciuto. Sicuro questo.
(Tanto che ti vuoi riconoscere, ormai).
Stanne certo, lei non era assolutamente quella che le rimandava lo specchio.
Erano le crepe della vecchiaia, povero specchio.
Andare subito a comprarne un altro. Nuovo. Brillante. Magico.
Uno specchio che sapesse annullare il tempo. Maledetto tempo. Maledetti ricordi.
Lei si domandava se per caso non stesse diventando suo padre. Certo, s’era sempre rabbuiata quando dicevano che la sorella somigliava a papà e lei a mamma. Si sentiva rivoltare dentro per quella schifosa bugia.
Lei somigliava a papà, altro che.
Stessa curiosità.
Stessa carica di positività, stessa voglia di scoprire, di fare, di imparare, di riparare, di sistemare. Stesso amore per la vita. E per l’amore.
E adesso si domandava se non stesse per caso diventando proprio lui.
Lui che raccontava. Lui che ricordava. Lui immobile o quasi. Dipendente da tutti per tutto.
Lui che era stato sempre così efficiente, così ingegnoso, come diceva la nonna “Bombolo è ‘ngignuso…” Bombolo… il figlio preferito tra sette figli. Il più bravo, il più bello.
E lei si domandava se non stesse diventando lui. Piena solo di ricordi. la vita tutta dietro. E l’amore.
Passeranno gli anni in ogni caso passeranno e non so quando, non so se ci sarò, magari vecchia vecchia
– non mi ci so proprio vedere vecchia vecchia,
sì chissà se ci sarò a ripetermi
(io che non voglio invecchiare, non voglio vedermi diventare ogni giorno più brutta e debole e sola e forse per questo morirò prima)
io camminando a stento, o magari aiutata da uno di quei bastoni a tre piedi, o spinta su una sedia a rotelle dalle mani ancora forti e pietose di mio figlio
chissà se ci sarò a ripetermi
– e forse la nostalgia sarà stemperata, appannata come gli occhi dei vecchi
chissà se ci sarò a ripetermi Eppure ti avevo amato! Quanto ti avevo amato! Non tu. Tu no.
………………………………………………. E se anche fosse arrivato il momento
se anche lei si fosse dovuta richiudere nel castello scuro e freddo,
alte pareti di pietra umida, piccole finestre e fuori un paese di nebbie e nebbie e nubi e gelo
e pioggia e grandine,
chicchi grossi così!
un paese morto, desolato, incustodito coi cani randagi e orde di barbari a scendere ogni tanto
e andarsene bruciando erba secca
……………………………………………….. se anche fosse arrivato il momento
di dire addio ai prati, ai crochi in festa, alle nuvole bianche e ai sorrisi del vento e della giovinezza,
di rinserrarsi in un buio come di sottoterra, di pozzo, di fogna, di grotta senza uscita da girare e rigirare per cunicoli senza torcia, un buio di tana di lupi, di orsi, di serpi
……………………………………………………. se anche fosse arrivato il momento
di staccare l’ancora e lasciare che la zattera prendesse il largo nel vasto mare del destino
e magari slegare il palloncino azzurro, lasciarlo, vederlo lievitare libero su in cielo
vederlo diventare un puntolino minuscolo e poi sparire nella sconfinata, radiosa luce del suo futuro
…………………………………………………… se anche fosse arrivato il momento
certo mai lei avrebbe, certo, mai dimenticato quelle labbra di lampone e gelsomino
……………………………………. Mi ricordo che, pieno pieno. Tutte facce stanche. Anche la mia. Neanche un posto a sedere, ovvio. Zaini, spintoni. Doveva essermi andato via anche il rossetto. I crackers a ricreazione. Finisce che me lo mangio sempre.
…………………………….. Mi ricordo che fuori un bel sole, però. Consolante. E l’auto procedeva lento nel traffico delle 14.30. Una fame!
E c’era una donna, una donna grassa grassa, seduta accanto a me, io in piedi, che mi guardava.Sorrideva. (Sta per parlare? Sorride. Mi sorride. La conosco? No, non mi pare)
……………………………….. Mi ricordo che, poi, Non mi riconosce? Aveva detto. E l’avevo guardata. Faccia vista da qualche parte, ma non… Il sorriso. Ecco, il sorriso. Ma dove? Ma chi? No. Proprio no.
……………………………….. Mi ricordo che, Natalina! Aveva detto, sporgendo la testa verso di me. Quasi a farsi guardare meglio.
(ma chi è Natalina? Natalina. Dove? Eppure, ma sì, sì! Natalina! una bidella. Ma, una bidella di scuola mia o della scuola di mio figlio da piccolo?
………………………………. Mi ricordo che fatto la vaga. Finto di. Simulato bene. E, Ah! Sì, Natalina! Come sta? Avevo detto. Con grande entusiasmo. Come di vecchi che si ritrovano. Sorriso intenerito, immalinconito. Dopo anni.
………………………………. Mi ricordo che, Bene, professorè, e lei? E sorrideva, sorrideva e muoveva la testa di qua e di là. Come a dire no, no! (Professorè! Allora è una bidella di scuola mia. Ecco, ricordo. Quanti anni! Ma Natalina era magra. Giovane, saltava come un grillo. Beh, non giovanissima, ma questa…)
………………….………………Mi ricordo che, E’ rimasta uguale, professorè! Diceva ancora. Uguale uguale! Cammina sempre? Certo, Natalina, certo! Tutti i giorni, da sedici anni, tutti i giorni. Quattro chilometri. Brava! Aveva detto. Si vede! È sempre giovane! E sorriso. Suo e mio. Lei che faceva sì, io che facevo no, con la testa.
Ma lei no, lei non era rimasta uguale. Lei era una vecchia grassa, una sedia e mezzo di spazio, e poi il viso! Canyon e praterie. Tutte rughe che si stendevano e si rapprendevano ad ogni parola mollemente. Vischiosamente. Un leggero ansimare. I capelli radi, opachi, grigiastri, gli occhi stanchi. Le mani grassocce che stringevano una borsetta di fintapelle. I piedi gonfi. Scoppiavano nelle scarpe.
Beh, oggi non ho mai pensato a te, amore mio. Neanche ieri. Troppo da fare, ma… sai che sto pensando ora
Spero di non incontrarti mai più, ragazzaccio bello. Mai più.
………………………………………. E lei pensa Prima o poi si diluirà quest’amaro in bocca come si diluisce la notte sui tetti delle case al mattino, come si diluiscono le nubi alle sferzate delle raffiche di marzo o la nebbia che si sgretola alle tenere leccatine del sole sempre più alto, nel giorno. ……………………………………… E lei pensa Prima o poi s’allenterà questa nostalgia di giovinezza come s’allenta il nodo in gola al fluire delle prime lacrime che lavano il dolore del mondo. Come s’allenta la morsa di tutti i dolori con un’anestesia di pietosa bellezza
………………………………………. E lei pensa Prima o poi si tornerà a camminare a sorriso pieno, dimentichi, senza voltarsi indietro, con lo sguardo luminoso come luminosi sono i giorni d’inoltrata primavera che brillano tra le gemme e i piccoli fiori e slargano i cuori e spianano i crucci e spolverano di dolcezza le ferite del mondo, ché, si sa
E quando saranno passati vent’anni guarderò ancora dentro questo buco di cuore se guarderò se ancor ci sarà un buco o un cuore e le ferite saranno tutte lì quando saranno passati vent’anni andrò ancor a cercare paesaggi sfumati di trame di nostalgia quel tuo guardarmi dal cruscotto della macchina mentre ti venivo incontro e sorridevo e anche gli occhi saranno ormai annebbiati tra vent’anni e cercherò poi l’abbraccio nella scatola dei ricordi piena di polvere soffocata scolorita cercherò quel disegno quella curva tra la spalla e il collo quei ricami di minuscole rughe attorno al celeste degli indescrivibili tuoi occhi e la voce.
. Non partirà nessun treno mai più mai più da questa stazione di dolore abbandonata tutto è fermo la campana bloccata arrugginita erbacce nella vasca della fontana secca. Neanche un gatto a miagolare accanto ai rami spogli del rampicante. Chissà cos’era prima. Se fiori. Se foglie.
“Cancellare tutti gli errori, i sotterfugi, tutte le forme
di distruzione; per non conservare altro che queste
lievi, queste fragili punte di freccia, scoccate
da un angolo d’ombra a fine inverno”
da “E, tuttavia” di Philippe Jaccottet
…e si parlava di viole. Dove poter cercare viole in questo interminabile, piovoso, ventoso inverno? Dev’essere questo il punto. Le viole. La loro assenza. Dunque non si cancella nulla, non si dimentica. Niente viole. Non ci si placa.
Eppure c’è stato un tempo in cui avevo le braccia cariche di viole. Grondavo viole come un quadro preraffaellita. Così era il mio stare. Il mio andare nel dolore del mondo. Quel profumo mi cautelava. Mi stordiva. Mi drogava. E tutto accettavo. Tutto tolleravo. Tutto portavo a cuor leggero. Non c’era pietra che mi colpisse. Nulla che mi ferisse. In quei giorni. In quella mia tardiva primavera che credevo eterna.
Certo che mi piacerebbe andare, dice. Ma la casa, sai, pochi appoggi Come faccio ad arrivare al tavolo al bagnetto il deambulatore non c’entra. E poi le scale.
Guarda la grande stampa, 2.80×1.60 sulla parete di fronte al letto l’unico paesaggio che ormai gli è permesso. Bello, vero? Dice anche oggi. Le Matin del Vernet. Ah! Oggi è Natale! Che ci farete
Ma io non lo so se chi non abbia mai provato certi piaceri, certe sensazioni, certe emozioni e dunque non sappia cosa si perde a non…sia più sconsolato di chi abbia provato, abbondantemente provato, appassionatamente provato, parossisticamente provato tutto questo e l’abbia poi perduto probabilmente per sempre.
Ma basta. Basta, ti prego, basta! E il lavoro a 14 anni, e la bicicletta. E il fattorino postale. E il calcio. E la chiamata alle armi. Basta. E la classe del ’18 povera. E hanno chiamato anche quella del ’19. basta! E poi la guerra e la prigionia. E Zonderwater. E la patente. E l’autobotte. E lo shop indiano. E le salsicce. E il carcere. E la mattina dopo il capitano che ti libera. Ché gli servivi. Per i maiali. Basta! Tutte le settimane. Tutti i sabati dalle 17.00 alle 19.00. Basta. Non ce la faccio più.
Tutti i sabati. E certe volte anche i mercoledì. E il lavoro a 14 anni, e la bicicletta. E il fattorino postale. E il calcio. E la chiamata alle armi. Basta. E la classe del ’18 povera. E hanno chiamato anche quella del ’19. basta! E poi la guerra e la prigionia. E Zonderwater. E la patente. E l’autobotte. E lo shop indiano. E le salsicce. E il carcere. E la mattina dopo il capitano che ti libera. Ché gli servivi. Per i maiali. Basta! Parliamo un po’ d’altro, vuoi? Ma di cosa parliamo?
Te ne stai lì, sulla poltrona, ti ci metti quando arrivo, se no stai a letto. E ricominci a raccontare. Tutti i sabati. E certe volte, magari perché non stai tanto bene, magari c’hai la tosse, e vengo pure il mercoledì e tu, il lavoro a 14 anni, e la bicicletta. E il fattorino postale. E il calcio. E la chiamata alle armi. Basta. E la classe del ’18 povera. E hanno chiamato anche quella del ’19. Basta! E poi la guerra e la prigionia. E Zonderwater. E la patente. E l’autobotte. E lo shop indiano. E le salsicce. E il carcere. E la mattina dopo il capitano che ti libera. Ché gli servivi. Per i maiali. Basta!
E vuoi che i giornali pubblichino la tua storia. Gli scrivi. Non rispondono. E ti arrabbi. La storia della tua vita. Ma no, dai! Sui giornali scrivono i giornalisti. E mbeh? La mia storia è importante. Per te, dico io, come per me! per tutti, dici tu. Balbo, l’ho visto cadere. Fuoco nemico. Ma lo sanno tutti, dico io, ah sì? Dici te. Ma che te lo dico a fare. Tanto ricominci. Ricominci, anche due volte, in quelle due ore, tutti i sabati e certe volte pure i mercoledì, che mi fai pena in quella stanza, a fare niente, solo a rigirarti vecchie foto che ti scappano di mano, mi fai tanta pena ma io non ti faccio pena. Non hai pietà di me. Neanche mi guardi. E ricominci. Tutti i sabati, e pure qualche mercoledì, il lavoro a 14 anni, e la bicicletta. E il fattorino postale. E il calcio. E la chiamata alle armi. Basta. E la classe del ’18 povera. E hanno chiamato anche quella del ’19. basta! E poi la guerra e la prigionia. E Zonderwater. E la patente. E l’autobotte. E lo shop indiano. E le salsicce. E il carcere. E la mattina dopo il capitano che ti libera. Ché gli servivi. Per i maiali.
al custode dei ricordi, quello nutrito e cresciuto in petto. Il più potente dei signori. Il più amato. Questo.
Come quella volta lì che c’era la neve e papà m’aveva presa in braccio. Per non farmi gelare i piedini. Fuori del cinema, aspettando il tram. Guantini di lana rosa. Tirare fuori dalla sporta pesante e tenere in mano, allora, in grembo, magari, ché le mani saranno stanche e tutte storte per l’artrosi. Tenere lì. Guardare e sorridere. Così.
Avere parecchio da presentare
al custode dei ricordi, quello nutrito e cresciuto in petto. Il più potente dei signori. Il più amato. Questo ci vuole.
Come quell’altra volta che tu, ah, tu! con lo sguardo di bambino perduto, m’hai detto vai già via? E sarei restata ancora mille anni. Mille e mille anni anche solo a guardarti. Anche solo a guardarti. Tirare fuori dalla sporta pesante e tenere sul cuore. Il cuore. E ancora batterà lento. O veloce. O non lo so come.
Seduta in balcone all’inizio dell’estate, allora, che chissà chi lo curerà il balcone, io vecchia vecchia e debole e stanca
bene, avrò parecchio da presentare
al custode dei miei ricordi che nutro e cresco in petto. Il più potente dei miei signori. Il più amato.
Come quell’altra volta ancora che mi stringevi le mani e baci a pioggia mi svegliavano al mondo e la tua voce, la tua voce! O quell’altra che… ma questo non lo dico. Lo lascio lì, è mio…
ce ne sarà da stare a ricordare, a ripescare nel cumulo, quel giorno.
Quel giorno lì, quando niente più tempo, né gambe, né mani, labbra e occhi per costruire nuove tracce di lucente memoria.
E mi farò bastare quello che c’è. Spero. … … … (by poetella)
Ma tu te lo compri il giornaletto coi programmi?dice. No. Fa lei. E come fai? Lei fa il gesto di pigiare il telecomando. Cerco, dice. Poi, mica la vedo tanto la tv Lui sfoglia il libricino. Non ha sentito la risposta. Stasera, vediamo, dice. Film drammatico. no.. non mi piace. Mi piacciono i western. Su rete4, vediamo. Ma tu non te lo compri il libricino? Dice. E lei, no. Non lo compro. E come fai? Chiede ancora. E continua a girare pagine. Rete4, canale5, rai3, no, rai3 no, che so’ tutti comunisti. Lei scuote la testa. Iris, qui fanno film. Vediamo. Legge, storpiandoli, nomi di attori che non conosce. Non c’è John Wayne, dice. Ma tu non te lo… No, non lo compro mai! E come fai? Dice.
Vuoi un bicchiere di succo di frutta, papà? Dice lei. Lui continua a leggere. Non risponde. Rai Movie. Altri titoli, altri attori coi nomi difficili. Ti va di alzarti e fare due passi in corridoio? Questo lo sente. No, non me la sento, dice. Non mi tengono le gambe.
Lei non insiste. A che serve, ormai? Poi, non ha mai insistito con lui. Combattuto, sì. Ma insistito. Adesso, poi. Ormai è una corteccia vecchia, svuotata di tutta la forza immensa che aveva. Svuotato di tutta la furia che la spaventava tanto. Fragile. Debole. Totalmente dipendente da tutto e tutti. Ma ancora testone. Anzi, sempre più testone. Dai, devi bere, dice lei. Te lo porto un succo di frutta. O vuoi una cocacola? E lui, no! voglio vedere un film con John Wayne, dice.
Speriamo che qualcuno lo trasmetta, pensa lei. E prende il giornaletto, cercando. Con diligenza. Pazienza. E tanta pena.
Tra poco tornerà a casa a consolarsi con la sua rosa. Lei. … … … (by poetella)
Si sono tutte aperte. Tutte e tre. A una stanno cominciando a cadere dei petali. Bianchi. Sottili. Sembrano riccioli di burro. Mi ricordano, per lo meno, riccioli di burro. Come quelli che trovavo, e mi parevano magici, non da mangiare, non da distruggere spalmandoli sul panino caldo, quelli che trovavo nella vaschetta di cristallo rettangolare con gli angoli stondati e il cucchiaino a paletta d’argento accanto a quelle altre tonde, ciotoline con dentro marmellate di vari colori. Tre, mi pare. o due. Non ricordo bene. Ricordo solo che mi piaceva più di tutte quella rosso chiaro. Mamma diceva, tutta bella, tutti i capelli rossi lunghi, tutta elegante nel suo prendisole di piquè rosa, al tavolo della prima colazione dell’albergo, al mare, mamma diceva che quella era di fragole. La mia preferita. Ancora adesso. Mangia e non ti sporcare. E allora avevo quattro anni. Pare che i gusti io non li cambi molto di frequente.
Anche le peonie mi sono sempre piaciute. Ne avevo una di organza applicata sulla camiciola verde menta, a quattro anni, all’albergo al mare. E mi piaceva da matti. La toccavo per essere sicura di non perderla. Sicura. Sempre. Le peonie hanno una bellezza dolente. Ci senti dentro tutta la malinconia della fine. Ci senti dentro una musica d’oboe. Fonda. Struggente. Un profumo d’oblio. Una sta perdendo i petali. Destino. Quando saranno sfiorite ne comprerò altre. Loro, posso ricomprarle. Almeno per qualche altra settimana.
. Bene. Dobbiamo prepararci tenere a posto tutte le cose continuare costantemente ad imparare la strada tenerla bella pulita sgombrata da residui di tracciati già scritti previsti prevedibili sbocchi di svolte improvvise improvvise cadute di tensione sbarramenti alle nostre residue nuove emozioni tenere gli occhi belli aperti e la bocca pronta predisposta a fare oh! Oh! col libricino dei ricordi a portata di mano benedetti! Da aggiornare. Via via.
Dobbiamo immagazzinare la luce e l’aria e il calore e il colore o magari il tepore e l’allegria e la gioia, sì, la gioia di qua e di là nei fiori? Si faccia esperto giardinaggio si studi. Si scatenino passioni spassionate per quadri e vite d’altri nelle pagine e pagine ammonticchiate nella memoria e nelle librerie o negli occhi neri d’oriente dell’amico ritrovato (caro!) nel miagolio affettuoso del gatto adottato dal condominio nel profumo di gelsomino e di peperoni arrostiti ché l’amore…
ché, stella stellina la notte s’avvicina la fiamma traballa la mucca è nella stalla…
no. Questo non c’entra proprio niente, adesso. Noi si guarda avanti. Noi.
E vorrei dire ma sì, lo so, me lo dici tutti i sabati, lo so! E invece dico chissà come correvi! E tu, sì, sì! Mi serviva d’allenamento, mi serviva fare il fattorino postale, ché io ero un campione, lo sai? Ed io vorrei dire ma sì! Lo so, lo so, me lo dici tutti i sabati e certe volte pure gli altri giorni, per telefono! E invece dico ma quanti anni avevi? E tu continui, mica senti, mica rispondi, continui. Che poi giocavo anche a pallone, dici, lo sai? Ed io lo so, lo so. Sono anni che lo so. Me lo racconti e riracconti ogni volta, ogni volta andando a ripescare un te forte, giovane, bello fuori da quel letto con le lenzuola celesti e la traversa di plastica.
E continui, sempre le stesse parole, una cantilena. Il lavoro dall’ingegnere, ché girava per i cantieri e gli serviva uno che prendeva le telefonate, dici. E lo zio Zerilli, pezzo grosso, laureato, a quei tempi! Pensa! funzionario di Stato che mi fa entrare alle poste, dici. Portavo i soldi a casa!
Dove la trovo la pazienza di fare eh, sì! Soddisfatta. Un po’ sorpresa. Guardo l’orologio. Dove la trovo la pazienza per fare qualche domanda nuova, se pioveva come facevi, con la bici? E i telegrammi? Ma tu non senti le domande. Tu stai chiuso nella scatola dei ricordi e ci guardi dentro. Fuori non c’è niente. Io sono solo orecchie che sentono. Fuori, solo il letto con le lenzuola azzurre e la traversa di plastica. E continui la cantilena. Alle poste. A Misurata, la casetta a schiera. Sedici anni. Il vicino che cucinava. Pasta e alici. Uova fritte. Patate. E poi l’Ufficio Postale a Tripoli. Lo sportello delle raccomandate e le ragazze, poche, che venivano e sorridevano. Poi la cartolina di leva. La classe del ’18 povera, chiamano anche i primi mesi del ’19. E sei fregato, dici.
E anche io, anche io questo sabato, quest’ennesimo sabato sono fregata. Speravo di distrarti. Magari con le foto sul telefonino del pronipote bello bello. Invece, niente. Solo perché in una foto c’era una bici. Ti sei attaccato a quella. Hai preso il via. Ripreso il romanzo. Un’altra volta. La bici, campione. Il pallone. Lo zio Zerilli, pezzo grosso, tu fattorino postale,a sedici anni. l’Ufficio a Misurata. Quello a Tripoli, allo sportello delle raccomandate, le ragazze, la chiamata alla leva, la classe povera del ’18 e ti hanno fregato.
Ora devo chiamare il taxi, papà. Devo andare. È tardi.
Il distacco. ‘n accidenti proprio. Imparare il distacco. Andare verso il distacco. Guadagnare il distacco (s’accende una sigaretta. Aspira fondo, la testa un po’ indietro, poi butta fuori tutto il fumo). Quale cacchio di distacco? Siamo umani, no? Bipedi (guarda sua sorella, che tace). Camminiamo. Vogliamo il duro sotto i piedi. Ci serve.
Altro che distacco. Visto mai uno che cammina per aria? Come gli amanti o le mucche di Chagall? Visto mai? (sua sorella non parla. La guarda. Non fuma)
Io mi sarei proprio scocciata di tutte queste stronzate sul distacco. Sul lascia che sia. Sul vivi l’adesso. Ma sì, cavolo, sì che lo vivo l’adesso. Come no? Mica mi serve che me lo ricordino. Che me lo consiglino. L’adesso si vive sempre. Finché si vive(la guarda. Quella, zitta. La guarda, fuma e parla). C’è qualcuno che non lo vive, l’adesso? Ti risulta?
È che vogliamo sapere. Vogliamo controllare. Vogliamo qualche drittina su quanto durerà quest’adesso. Sia che si voglia che finisca, sia che continui, ‘sto cavolo di adesso.
(e la sorella zitta, buona, beve il tè e guarda una farfalletta che svolacchia sui gerani)
Ma sì, sì, sì, sì! Certo che si vivrebbe meglio. Meglio, a non avere bisogno di programmare, pronosticare, o magari solo prevedere, con un piccolissimo margine di dubbio. Senza andare a cercare conferme da tutte le parti. Meglio, si vivrebbe. Senza cercare nei fondi del caffè o nei rametti di millefoglie.
Ma come fai? Come cazzo fai? Balle, il distacco. Balle.
Vaglielo a dire a quelli che gli è crollata la casa, la vita addosso. Vaglielo a dire a loro, il distacco.
Non lo so mica dove prendevamo la tavola. Camminano.
Aria proprio di primavera. Giacchetta rossa, lei. Camicia, pantaloni.
Lui maglione a collo alto, giacca. Se mi fai prendere freddo vedi, dice. E sorride.
Sorriso stampato, oggi.
Ma dove la prendevamo la tavola? Boh. I cuscinetti a sfera, quelli sì. Ce li dava il ferramenta. Compravamo. I soldi?
Cercavamo le bottiglie, te l’ho raccontato? dice. (difficile non le abbia raccontato qualcosa, in quarant’anni.)
Cercavamo bottiglie. Di vetro, sì. Le portavamo al supermercato. Tutte sporche. Quelli sorridevano e ci davano i soldi. (‘sta cosa delle bottiglie, in effetti. Forse sì, gliel’aveva raccontata. O forse no)
Mica tutte. Certe non (sposta un ramo di platano che gli dondola davanti) non andavano bene. Mica tutte. Quelle dell’acqua minerale, sì. Quelle della coca cola. Quelle delle birre, mi pare di sì. Quelle dell’aranciata, no.
Come dove? Le prendevamo dove le trovavamo. Nelle aiuole. Accanto ai bidoni della spazzatura. Fuori dei portoni. Tutte sporche. Tutte pasticciate. Piene di terra. ‘no schifo!
Raccoglievamo e portavamo al supermercato, dice. E quelli ci davano qualche soldo. Bastavano per comprare i cuscinetti a sfera.
Pure i giornaletti. Il ferramenta si prendeva i giornaletti e ci dava i cuscinetti.
Sorride. E snocciola nell’aria tiepida ricordi. Che galleggiano come farfallette.
C’è un venticello grato. Quasi una speranza. Una possibilità. Parrebbe.
Ogni tanto le prende la mano. Per attraversare. Poi continua a tenerla.