(poetella, la mamma e la sorellina…)
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Bambine! si va in centro! aveva detto mamma, bella bella, col vestito rosa di piquet, stretto in vita, sottile la vita di mamma, le braccia nude piene di lentiggini.
La gonna svolazzava larga e gonfia ad ogni passo, sbruffo di petali di peonie, mentre prendeva i due vestitini uguali verde acqua per le gemelle. Disegnati, tagliati e cuciti e provati in pochi giorni. A scuola finita. Anche per lei.
Giugno si slargava pieno di vacanze. E di sole. E di attese.
In centro. Bello. Le compagnette delle gemelle dicevano Ieri so’ andata a Roma e loro Ma non stiamo a Roma?
Ma la mamma no. Lei diceva in centro. La mamma sapeva bene tutte le parole. Sapeva tutto e sapeva insegnarlo. La mamma era bella bella.
E ora in centro a passeggiare coi vestitini nuovi e mamma tutta luce e magari pure il gelato e stare ben attente a non sbrodolarsi. Attente attente.
Tanto Tata si sbrodolava sicuro. Lei no. Lei era una brava bambina. Se lo voleva far dire spesso, per crederci. Una brava bambina composta, che non si sbrodola. Tata non era brava. Le faceva i dispetti. E diceva sempre Brutta lenticchiosa, se vedeva che la sua bambola era più stropicciata e ciondolosa e sporca e allora Brutta lenticchiosa a lei, per vendicarsi.
E lei piangeva piano e non si faceva vedere da mamma, che se no mamma prendeva la cucchiarella di legno e giù a spezzargliela sulle gambe a Tata.
E poi Quando viene papà il resto, diceva. Che pizzicava di più quella frase che le strisciate di cucchiarella stampate sulle gambe.
E allora lei non diceva niente a mamma di Brutta lenticchiosa. Se ne stava a pensare che le lentiggini, come mamma, solo lei. Pure se i capelli erano neri. Ma le lentiggini, come mamma, solo lei. E poi piangeva piano piano, in cameretta, senza farsi vedere, sommessa come un sobbollire di minestrone. Di lenticchie. E aspettava. Aspettava che Tata. Ma quella mai. Mai a dire scusa.
No. Non era una brava bambina. Per niente era una brava bambina. Tanto si sbrodolava sicuro col gelato, se mamma lo comprava. Sicuro.
Vi devo raccontare una bella cosa, aveva detto mamma sul tram che traballava sferragliando tra le casone alte alte, verso la Bellezza. Tata coi piedi di qua e di là della ruota dello snodo, che si faceva trascinare e sballottare ad ogni curva e rideva e rideva e mamma a dire Sssshhhhhhhhh! Buona. Buona un po’. Vieni qui. Buona. Zitta.
Figurati! Buona Tata! Quando mai! E lei si teneva salda, eroica, vedi come sto buona pensava. E che fatica su per i polsi. Ma lei contrastava. Contrastava la vita che voleva farla cadere. Forte contrastava i sobbalzi. E le paure.
Arrivate. Spalancata la piazza della stazione Termini. Immensa di luce di giugno, di gente, di macchine e autobus. D’estate e di vacanza.
Camminavano tutt’e tre, le gemelle con le scarpette bianche ben pulite col bianchetto e mamma cantava
Que Sera, Sera,
Whatever will be, will be
The future’s not ours, to see
Que Sera, Sera
What will be, will be
Bella mamma, coi capelli rossi come un incendio sulla schiena.
Sediamoci lì, aveva detto.
Una panchina sotto i platani. A terra un chiacchiericcio di piccioni. E loro, buone, scarpette, borsetta, guantini bianchi, il gelo del marmo sotto le coscette nude. I piedi penzoloni.
Vi voglio dire bene bene una cosa, aveva detto mamma, con un’aria magica. Misteriosa.
Siete grandi, ormai. Vi voglio dire come nascono i bambini. Va bene? Volete?
E loro Sì. Insieme. D’accordo, adesso.
Tutt’e due Sì, con la testa. In attesa.
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(by poetella)
Que serà serà – Connie Francis
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