Vorrei dirti quello che ho visto
non l’oro che ho trovato
vorrei dirti la luce che m’ha investito
m’ha tenuto per tanto tempo
e anche quando ho trovato l’oro
non è andata via, ma è rimasta,
vorrei dirti di una luce
che non va mai via,
che quando la trovi cresce sempre di più
come l’acqua che il bambino ha trovato
scavando nella sabbia vicino a riva,
lui la leva ma quella ritorna,
così vorrei che succedesse a te
che tu trovassi questa luce e ti illuminasse
di felicità e non ti lasciasse mai
per tutto il tempo della tua vita.
(Claudio Damiani)
.
E non è forse questo che ogni persona che ama vorrebbe
accadesse al suo amore?
Non è questo desiderio di felicità
dell’altro
il succo dolce della storia?
……………………………………………… Se amore è.
La perla, il tesoro dissepolto, il prezioso dono invocato dal destino
Il fico sulla fortezza
ha vita molto precaria
perchè quando faranno i restauri
sarà certamente tagliato.
Però sta tranquillo sotto la luce del sole
distendendo il suo ampio mantello
disuguale, incurante dell’estetica,
se ne frega di stare così in alto
non soffre di vertigini
si lascia accarezzare
dalla luce e dalle brezze tiepide
sente la nebbia, sente gli uccelli
che parlottano tra i suoi rami.
…………………….. ecco. Così sto. E quando arriverà il taglio… amen!
Per adesso stiamo tranquilli, non soffriamo di vertigini e ci godiamo luce, brezza e canto.
… che il pranzo è pronto (solo lievi particolari da ultimare) la casa tutta in ordine e pulita, i panni ritirati e messi a posto e tutte le altre piccole mansioni domestiche svolte
mi rilasso un po’ beandomi dell’ordine e della bellezza…
Poi guardo loro. Loro mi guardano. Un po’. E rimettono giù la testa. Ognuno a trafficare coi disegni.
Questa seconda D che m’ha fatto dannare. Che ha fatto dannare tutti. Pure lei, dannata.
Sempre rumorosa. Dura. Selvaggia.
Questa jungla dove c’è stato sempre da sgolarsi.
Magari solo per spiegare il concetto di fusibilità.
O la straordinaria resistenza alle alte temperature del tungsteno. Di che? Del tungsteno. Cazzo di nome!
Mica colpa mia se si chiama così.
Sgolarsi a spiegare l’importanza, maledetta importanza, la matita di tecnica deve pungere, non si tempera solo a Natale e a Pasqua, stramaledetta importanza delle, ma chi le usa più, ormai? Ormai c’è autoCAD, stramaledettissima importanza dell’usare le due squadre per costruire linee parallele. O perpendicolari.
A questi ragazzi che di perpendicolare c’hanno solo il filo a piombo del destino segnato che già gli spenzola sulla testa. Il pugnale di Macbeth.
Eppure guardali, adesso. Guardali questi mostri d’arroganza, questi concentrati di volgarità, condensati di rabbia, sudore. E puzza.
Guardali! Tutti zitti. A disegnare.
E, nel silenzio rispettoso, complice, chiaramente, un impercettibile ronzio. Come un ronfare di gatto.
Marco, banco accanto alla cattedra, testa sulle braccia incrociate, dorme.
Io non so se questa mia vita sta spianata su un
buco vuoto. Non so se il silenzio che indago
é intrecciato alla mia sostanza molle.
Io non so se quello che cerco e ho cercato e
cercherò, non so se quello che cerco
é un insulto a quel vuoto.
Non so se questo fatto di non avere
un paio d’ali sia premio o castigo,
io non so se la polveriera
della mia inquietudine sia un trono
su cui mi siedo minacciato, se la fuga che
a scatti regolari mi pungola, se quel
puerile sogno di fuga sia uno sgambetto
d’angelo, d’un buffone d’angelo che
mi vuole inciampare.
Io non so se l’amore sia una guerra o una
tregua, non so se l’abbandono d’amore
sia una legge che la vita cuce fino al
ricamo finale. Io non so
che farmene di questi nemici che premono,
non so che farmene oggi di questo oggi
e me lo ciondolo fra le dita perplesse,
non so parlare di quello che
è sentito nel profondo me, non so parlarlo
quell’essere che é qui presente fra le vite degli
altri.
Io non so spiegarmi l’imperturbabilità
di Dio, e non mi spiego di non udire il
suo grave lamento, il suo urlo di collera o
d’amore, e non so vederlo che sono in cecità
ma vorrei sentirlo almeno piangere come piango io
guardando le facce indolorate, guardando le
facce con grave malattia terrestre,
io non so invocarlo né bestemmiarlo che
è troppo nella sottrazione e troppo
astratto per i miei chili umani.
Io non so forse non voglio
consegnarmi negli uffici del mondo,
e stare buono nelle sale d’aspetto della
vita. Io non so nient’altro
che la vita e molte nuvole intorno che
me la confondono me la confondono e non
so cosa aspetto, cosa sto aspettando in questo
sporgermi al tempo che viene. Io non so
e vorrei, vorrei, non so stare
fuori misura, fuori misura umana,
fuori da questa taglia finita.
Io non so perché guardando l’acqua del mare
mi salta in petto una gioia di figlio con la
madre. Non so se questa uscita mia in un secolo
a caso, se questo essere qui a casaccio,
io non so spiegarmi questa malattia
all’attacco del mondo, non so guarire
questa malattia che indolora e vorrei
sistemare ogni cosa, in un sogno puerile di
tregua, in un’arcadia anche retorica,
in un dormire abbracciato dei
guerrieri che si innamorano.
Io non ho capito e dovrei,
non ho capito il mondo della
vita, io non ho capito la legge sottostante
e non ho da fare la consegna a
questi cuccioli che aspettano, che esigono
da me l’aver capito.
Io non so la canzone
che spensiera e non so soccorrervi
non so pur volendolo
con quella forza di cagna
che dà il latte, non so soccorrervi nel vostro
sbando, io non so farvi da balsamo
io non so mettervi nel coraggio essenziale,
nello slancio, nel palpito.
Il mio Graal l’ho ritrovato e perso cento
volte.
Io non so se la bellezza è questa accademia di
centimetri, se la bellezza, la bellezza è questa
carnevalesca decadenza di saltimbanchi,
io non mi spiego la crocifissione
della grazia, e non mi spiego perchè
mi trovo in questo covo rivoltato
in questa fossa con gli orchi attuali
in questo lato barbarico della specie,
e non so perchè stando a occidente non si
ode quell’alleluia delle cose.
Io non so se in questa schiena
senza ali ci son grandi pianure da cui fare
il decollo, se in questa spina dorsale
ci sono istruzioni
per la manovra di decollo, se sono io la freccia
di questo arco della schiena, se sono io
arco e freccia, non so in quale mano
non mano o zampa di Dio mi stanno
torchiando, e sottoponendo al duro
allenamento dei dolori terrestri.
Io non so se la solitudine, se quello
strazio chiamato solitudine, se quell’andare
via dei corpi cari, se quel restare soli
dei vivi, io non so se quel lamento della
solitudine, se quel portarci via le facce
se quel loro sparire
di facce che avevamo dentro il respiro, non so
se il dono sia questo portarci via le
carezze, questa slacciatura.
E’ poco il poco che so e di questo
poco io chiedo perdono. Io chiedo
perdono per quello che so, perdono io chiedo
per tutto quello che so.
( poetella legge Mariangela Gualtieri – tratto da Parsifal, in Fuoco centrale e altre poesie per il teatro)
…………………………………. dice Se solo fossi andata dallo psicologo, da ragazzina
se solo qualcuno m’avesse fatto capire perché sceglievo questo invece che quello, che poi era quello che avrei voluto, ma no. Anche se mi dicevano Guarda che non è questo… è quello che ti servirebbe…
.
…………………………………. dice Se solo fossi andata dallo psicologo, da ragazzina
e non mi fossi incaponita solo per dimostrarti che ero più forte di te, più in gamba, più intelligente di quanto tu non pensassi, che tu non lo pensavi, credevo, e come avrei potuto pensare che lo pensassi? Non me lo dicevi mai!
.
…………………………………. dice Se solo fossi andata dallo psicologo, da ragazzina
e non mi fossi intestardita a scegliere per me questo, invece che quello adesso non mi troverei impicciata in brogli da sbrogliare, noie da sopportare, rabbie da far sfumare, magari fumando, dai, perché no, occhi al cielo e testa che si scuote piano e fa no, no, no!
.
…………………………………. dice Se solo fossi andata dallo psicologo, da ragazzina
e avessi raggiunto un po’ di consapevolezza riguardo le mie azione, un po’ di chiarezza, Faccio questo perché, Faccio quello perché, magari ti avrei dato ascolto, papà, magari avrei capito che anche se non me lo dicevi pensavi un sacco di belle cose di me, perché lo so che ne avevi motivo. Ormai lo so. Ma adesso è tardi.
…………………………… Ma sì, non ha importanza, lo so eppure ci sono giorni in cui mi chiedo di te non lo nascondo, nonostante il lavoro l’infinita complessità delle incombenze le svariate attività intraprese e quelle abbandonate al chiuso e all’aperto (bella parola abbandonate, non ti pare? Abbandono. Abbandoni…) al chiuso e all’aperto da sola e in compagnia – si dovrebbe poter scegliere meglio la compagnia –
Eppure ci sono giorni o, per meglio dire, non ci sono giorni, ma davvero mai neanche un giorno
…………………………………………………. neanche uno stramaledetto giorno in cui non mi chieda di te che chissà che fai, dove sei, con chi mai
quel profumo improvviso che ti ricorda l’armadio di nonna, sempre ordinato, quel profumo che stazionava attorno, riempiva gli angoli bui della grande casa, le stanze inesplorate, avvolte nel silenzio, riempiva i sogni di bambina, l’allegria composta del gatto. Ché tutto era composto nella casa.
…………………………………………………………… le piccole gioie come
uscire dallo studio del dottore e Lei ha le arterie e il cuore di una ragazzina signora mia e avere davvero ancora il cuore di una ragazzina che si commuove e piange. Anche di gioia.
………………………………………… le piccole gioie, hai presente? come durante la lezione in classe ascoltare da fuori della finestra improvviso il canto forsennato di uccellini invisibili, ostinati, vispi, gioiosi come fosse una festa di bambini piena di trombette, maschere, coriandoli
………………………………………………………. le piccole gioie, sai, come scoprire che nello stesso giorno in cui eri particolarmente felice per questioni legate alla letteratura, alla poesia, alla bellezza tua sorella gemella lontana aveva pubblicato il suo quarto libro. Soddisfatta. Fiera. Felice.
……………………………… le piccole gioie, le deliziose piccole gioie come accorgersi che la minuscola talea di plumbago fatta a ottobre aveva messo su delle piccole foglie verdi verdi nuove nuove. Scoprire anche che la talea di consapevolezza, saggezza e serenità che qualcuno ti aveva fatto in cuore tanto tempo fa aveva ormai radicato e s’espandeva come un albero gigantesco
Non ci siamo più mio caro Non abbiamo più nulla di quei giorni. . …………….. Allora sorridevi ……………….. [quel sorriso di bambino] e intanto il mio cuore trottava da una parte all’altra del mondo
contro il tuo diramando dipanando il singhiozzo d’attesa asciugando e poi lavando e prosciugando ancora i forse – i se – i ma
C’era quella stanza ……………… – ricordi vero?
quella stanza che non spolveravo mai
non riordinavo, non aprivo armadi e sistemavo scatole
non posizionavo accuratamente soprammobili ………………………………………….. (non ce n’erano)
Quella stanza che era piena di sospiri
di sorrisi, anche qualche risata, a volte, via
quella stanza che non possedevo
era lei a possedermi a lusingarmi a brillare
della luce dei tuoi occhi specchiati nei miei
quella stanza senza musica piena della nostra musica
dove mi rifugio a volte senza esserci
dipinta sui vetri appannati (oggi piove e fa freddo) che forse
hanno memoria di me. E tu?
tu ti ricordi? risuona ancora la mia voce o la stanza è muta?
…………………………………………………………………………….. per sei anni e mezzo ho camminato sfiorando la terra incurante delle crepe sull’asfalto, dei ciuffi di margherite spuntati ai margini dei marciapiedi, dei rumori del traffico, degli strilli forsennati delle ambulanze, dell’abbaiare dei cani, avvolta nella musica dolce che faceva la mia speranza di vederti, amore mio, avvolta nel tepore dell’ultimo ricordo che sarebbe stato presto rimpiazzato da un altro e poi da un altro, certa dello scorrere fluido dei miei giorni sull’onda dell’attesa di te ………………………………………………………………………….…….. Per sei anni e mezzo ho lucidato la mia immagine riflessa nei tuoi occhi e brillava, come brillava! come brillo ancora, brillo, sai? se ricordo qualcuno di quei giorni profumati di giovinezza. Sei la mia eterna giovinezza t’ho detto una volta e tu, toccandomi la fronte e poi il seno proprio a sinistra dove sotto batte il cuore hai detto La tua giovinezza è qui e qui. E sorridevi. ……………………………………………………………………………….. Per sei anni e mezzo non ho mai temuto di perdere quella certezza di primavera e adesso, adesso dove, dov’è finita? Come può un inverno
La bambina guardava la mamma Bella mamma, bella bella! Coi capelli rossi come un’aureola di fuoco attorno alla neve della pelle, bella mamma col vestitino di piquè rosa pesco senza maniche e i sandaletti bianchi coi tacchi e lei a sua sorella Non ti mettere i sandaletti di mamma che li rovini! Piccoli piedi, mezzo sandalo vuoto, Non ti mettere la vestaglia di mamma di taffetà che ci fai le macchie. E quella, macchè! Bella bella mamma, la più bella di tutte le mamme di tutte le compagnette, così smunte, così tutte uguali, così banali, così poco eleganti, col fazzoletto in testa, portamonete in mano e retina della spesa sul braccio coi ciuffi di verdura che sbucavano. Bella bella mamma professoressa e la tua? La mia fa le scale. Che vuol dire fa le scale? Bella bella mamma che le scale le faceva al piano con la vestaglia di raso celeste lunga fino a terra e tutte onde, come un mare attorno allo scoglio, attorno alle barchette, come un mare attorno alle pantofoline di raso col pon pon. Bella bella mamma che cantava Que serà, serà e tutta la casa tintinnava di note e voce, di voce e note, gli argenti, le porcellane, la luce rosata del tramonto, tutto che tintinnava attorno e il resto del mondo in silenzio, il resto del mondo immobile, il resto del mondo incantato. E papà incantato a bearsi con la faccia di uno che E’ mia! E io come sono, papà? E mai Sei bella come mamma. Mai una volta Anche tu. Poi, per fortuna, qualcun altro, sì.
………………… Perché vedi, figlio mio, sarai pure un po’ “bizzarro”, l’aveva predetto la dottoressa Di Falco, più di vent’anni fa, chissà se lavora ancora a Via dei Sabelli, dice, Certo, sarà magari un po’ bizzarro, da grande, ma… chi non lo è? Chissà se se n’è andata in pensione o sta ancora lì a valutare bambini e tirare le somme, alzare abbassare, sottrarre e dividere nel verdolino smunto delle stanze d’ospedale ………………… Perché vedi, figlio mio, sarai pure un po’ “bizzarro”, che poi la parola bizzarro m’è sempre piaciuta, suona bene, quelle zz, da piccola leggevo Il gioco di Mimosello e Mimosello era bizzarro pure lui. Sarai pure un po’ bizzarro che c’hai quasi trent’anni e non hai mai baciato una ragazza, e neanche un ragazzo, se per questo, per non parlare di, beh, che io all’età tua già… ma lasciamo perdere, va’, che poi non è che c’ho guadagnato tanto
…………… Perché vedi, vedi figlio mio, tu sarai pure un po’ “bizzarro”, niente lavoro, ma tanto quali sono i giovani, oggi, che gli piovono i meglio lavori in testa, che dove stanno mai ‘sti meglio lavori? Oggi. ……………… Insomma, sarai pure bizzarro, certo, chi dice di no, ma i tatuaggi e le creste ti fanno schifo e pure le cravatte a fiori sulle camicie a righe e i pantaloni col cavallo che struscia per terra che sembra che c’è un deposito di chissà che, là dentro. E pure le ragazze fanatiche. Ti fanno schifo. E ti interessi di politica, sai chi sono Zenatello e Fleta, a parte Gigli e tutti quelli facili e poi disegni e, quando torno stanca morta da scuola mi fai trovare casa in ordine, l’aria cambiata, che non sopporto la puzza di chiuso e già apparecchiato per me e Se sei stanca i piatti li lavo io, dici.
A volte la pioggia. No. Non solo la pioggia. A volte il vento ecco, e chi ha detto che solo il vento. Le sue raffiche, lo sconquasso dei rami, la frenesia delle foglie, delle insegne per strada, la voce roca, i colpi aspri della tosse nel soffio contro le persiane.
. A volte poi lo slargo d’azzurrro di certi cieli romani che, non so perché, solo a Roma credo. Larghi, lontani. (Ok, sbaglierò. Scusate.)
A volte anche il corale volo trepidante di migliaia di storni alle quattro del pomeriggio. Guardi su e… O certi silenzi della casa nella notte o l’Aria delle Goldberg suonata da Gould…
A volte la meraviglia di piccoli miracoli insperati nella monotona quotidianità dei giorni e
Il precedente video era non visualizzabile… eccone un altro….
.
Ma tu, tu m’immagini mai ti metti mai lì tra consapevolezza e sogno ti figuri il mio viso mentre, che ne so? cammino o sorrido o piango. Incornici mai fotografi mai coi pensieri il ricordo di un sospiro di uno sfioramento di vento dalla porta socchiusa giusto giusto per me arrivata in festa?
E quel mettere e levare gioie e tristezze e dubbi e battere il tempo quando il tempo era danza, ci ripensi mai?
Ci credi, mi ci vedi che sfilo le perle di quei nostri lontani giorni e le conto e riconto le conto e riconto e i conti non tornano mai
S’è messo in movimento il circo delle nuvole stamattina. Cavallucci coccodrilli a bocca aperta elefantini e tigri e conigli e giraffe e leoni c’era pure un unicorno obbedienti al domatore vestito d’azzurro e lustrini. Guarda che luce sotto il tendone del cielo!
Doma anche me, signor domatore, doma anche questo mio andare sconsolato occhi bassi, signore del cielo, schiocca la frusta dai il comando insegna il balzo ardito mettimi in marcia questo pezzo di cuore fallo passare nel cerchio di fuoco sparalo tra le stelle
che me ne vado in giro mani in tasca e lui fermo lì bloccato gelato a guardarsi dentro la solitudine nella sua gabbia senza specchi senza lucette.
Vuota.
… … …
(by poetella)
e per chi volesse scaricarsi lo splendido brano di Sibelius…
forse a qualcuno questo benedetto Antonio Lobo Antunes interessa…
ripropongo una mia vecchia recensione, o vecchio post, chiamatelo come vi pare
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.“– Un giorno o l’altro mi troveranno su questa spiaggia, divorato dai pesci come una balena morta – mi disse
………………(ma a chi lo disse, chi lo disse? È il protagonista che parla, o chi?)
mi disse nella via della clinica guardando gli edifici sbiaditi e tristi di Campolide, i monogrammi di tovagliolo delle insegne luminose spenti, i resti di porporina delle feste natalizie nelle vetrine, un cane che frugava, in quel mattino di febbraio, il mucchio di immondizia di un edificio demolito: calcinacci, polvere, pezzi di legno, frammenti di mattoni, senz’anima.”
. Ecco. Comincia così Spiegazione degli uccelli. Il quarto romanzo di Antunes che si sono degnati di pubblicare in Italia ben ventinove (dicasi 29!) anni dopo la sua pubblicazione in Portogallo. Viva! Tra l’altro nella quarta di copertina un risicato commentuccio parla di omaggio al cinema di Fellini, sicuramente per fare cassetta. Ché Antunes con Fellini a parer mio non ha proprio niente, ma niente da spartire. Antunes è dolente, è tragico e anche quando parrebbe grottesco in realtà sempre secondo me, non lo è affatto. O, per lo meno, è la vita che è grottesca, non lui. Perché lo amo tanto? Perché basta leggere di eroi e belle donne, ma dove stanno gli eroi e le belle donne? Ed i grandi amori? Che ti montano la testa! I suoi personaggi li puoi incontrare sulla metro, immalinconiti al ritorno da una giornata di lavoro del cazzo, che il lavoro non nobilita affatto l’uomo, si deve lavorare per campare, che se non si dovesse, ce ne sarebbero di modi per nobilitarsi. I suoi personaggi sono dei vinti, ché siamo tutti dei vinti. Basta co’ ‘sto pensa positivo! Ma che ti vuoi pensare positivo?che tanto siamo tutti dei poveracci su questa terra che, per fortuna, nonostante tutto, ha ancora qualcosa di bello da mostrare. E Antunes te la descrive, ogni tanto, una dolce, malinconica bellezza. I suoi libri sono pieni di tortore, gabbiani, cicogne, esseri volanti e liberi, i suoi libri sono pieni dello scorrere dell’onnipresente Tago e della struggente malinconia delle nebbie, sono pieni di parole come fiori scelti uno ad uno per il bouquet di una sposa.
La trama non conta nei suoi romanzi. In questo, già dalle prime pagine sai che il protagonista morirà. E allora? Tutti moriremo. Ok, basta. Non ce la faccio a parlarne in due parole. E dovrei scrivere anni, per dire di lui. Ma poi… chi legge?
– Lo sai, piccola (ok, non è più piccola, ma quale piccola! è una donna. Per lei però…) che forse ti devo distruggere un mito?
Leggi qua :
la ragazza guarda lo schermo e legge. Si rabbuia.
“… A far calare il sipario su queste potenti azioni artistiche è oggi un processo avviato da Ulay che accusa Abramović di aver violato le condizioni di un contratto siglato nel 1999 e relativo alle opere create insieme. Ulay assicura che la performer serba sia colpevole di aver imposto a diverse gallerie di presentarla come unica autrice di lavori frutto della loro partnership, di aver mentito sul prezzo di vendita e di aver pagato solo in quattro occasioni nell’arco di 16 anni.
Un’accusa che, come fanno sapere gli avvocati, Abramović rifiuta seccamente ritenendola lesiva per la sua reputazione e che si prepara a smentire di fronte alla corte alla fine del mese.”
Ludovica Sanfelice – 12/11/2016”
Legge… il visetto triste. Corrucciato. Un bambino davanti al giocattolo rotto.
…………………………………….. Lei sorride. Come il Budda che sa. Poi
– Poveri? No. No poveri. Poveri sono quelli che non hanno mai vissuto storie così. Quelli che vivono nel grigio. Che non sanno il sussulto, il languore, la furia, la fiamma. Poveri sono quelli che… (scuote la testa, mestamente) Loro no. Chi ha provato questo, anche quando è ormai finito, mai poveri. Ricordati, piccola. Mai poveri. Tutta la vita ricchi. Nel ricordo.