Gli oggetti. Maledetti.
Aveva letto un libro, un paio d’anni prima.
Un mondo senza oggetti. Titolo.
Buon libro. Scrittore esordiente. Marco Sette.
Senza oggetti. Giusto nei libri, pensava lei. O in quella casa che lui. L’altro.
Invece, tutte le domeniche mattina a girare per mercati, tra accozzaglie di finto antico, di vecchio, di rotto, di sporco, ogni tanto un brillio d’oro zecchino consumato, una luminescenza di porcellana rotta. E lui, lui cambiava faccia. Lui s’accendeva e toccava e palpeggiava e girava e rigirava nelle mani e guardava in controluce, e soppesava. E sorrideva. Lui che voleva, bramava. Manco fosse una bella femmina.
Un pezzaccio di legno tarlato, uno smaltino del ‘600, un rametto dipinto, una tela sbucacchiata, scolorita, col telaio sconnesso, scollato. Marcio.
E lo voleva.
Lei, l’aveva mai voluta così. Manco da ragazza. Lui.
E ora lei sapeva perché era rimasta tanti anni. Lo sapeva, ora, ma non aveva voglia di dirselo. Tanto…
E allora, dopo qualche Ma dai! Dove lo metti? Dove ce lo mettiamo? Diceva sì. Ok, compralo. Ok.
E pensava alla casa strabordante oggetti, scomoda, invivibile. Oggetti e oggetti incolonnati o sapientemente distribuiti, come un bottino di pirati.
Mucchi di porcellane, e Meissen, e Ludwigsburg, e Vienna, e Hochst, e Berlino e Samson e le ceramiche. Lodi, Savona, Albissola, Torino, Faenza, Urbino, e Napoli e Cerreto, e la Cina e il Giappone. E la Persia. E gli avori. E i vetri. Tutto distribuito sui tavolinetti tondi o ovali o quadrati o polilobati e nelle vetrinette, nelle bachechine e sulle mensole. Quaranta mensole di tutti i materiali, di tutte le misure.
E sulla consolle e sul pianoforte e nella credenza. E per terra e a parete. Oggetti e oggetti, brigate di oggetti, battaglioni di oggetti. Intere divisioni di oggetti da non spostare neanche di un millimetro, tutto posizionato dopo stressanti, strazianti, scientifiche progettazioni infinite. Dice Quello è il bello!
Tutto virtualmente incollato al suo posto. Obbediente. Preservato per l’eternità.
Da spolverare con la mappa in mano. Chi ha spostato il piccolo panettiere? S’accorgeva dei millimetri. Spolveratelo te! Diceva lei.
E poi i tappeti! E il Malayer, il Sarough, il Lilian, i Kerman Laver, i Pechino, i Bukara (autentici, mica pachistani, che ti credi!)e quello, come si chiamava? Ah, sì, lo Shiraz.
Tutti antichi. Tutti delicati. Tutti da pulire rigorosamente a mano. Scherzi? L’aspirapolvere? Ma sei matta?
Fan culo!
Ma alla fine (non riuscirà mai, lei, ad avere una libreria. Non c’entra) alla fine diceva sì. Ok. compra. Che mi frega. Tanto io. Un altro fagiolo nel barattolo. Ficcato dentro a forza.
Per fargli riempire il vuoto, per rimuovere la paura, per dimenticare la sconfinata solitudine alla quale non lavorava, però. Per non vedere la demoralizzante mancanza d’empatia, la durezza insindacabile di giudizio. Quel pover’uomo legato solo agli oggetti. Al passato. A se stesso.
Prima o poi, lei sperava, illusa, gli oggetti mi scalzeranno fuori di questa casa. Che odio.
Ma forse, purtroppo, no.
…
…
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(by poetella)
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